1.- Come il sabato è stato creato per l’uomo e non viceversa, così le istituzioni del diritto positivo sono prive di una sacralità intrinseca.
Esse sono strumenti di ragion pratica, da noi ideati per risolvere i problemi della convivenza sociale.
Si può, quindi, reputare che le medesime istituzioni vadano mantenute fino a che sono in grado di assolvere alla funzione per cui vennero introdotte e che vadano invece abbandonate quando il sopravvenire di elementi nuovi o diversamente valutati lo suggeriscano.
2.- Ne è un esempio proprio quanto è avvenuto con la costruzione del sistema di giustizia amministrativa italiano.
La legge abolitiva s’impose in ragione della ferma convinzione di Pasquale Stanislao Mancini.
Ma la stessa soluzione che, nel 1865, fu data al problema sarebbe cambiata solo ventiquattro anni dopo, questa volta per lo stimolo di Silvio Spaventa.
In entrambi i casi, le convinzioni che ispirarono i due studiosi non furono affatto di natura esclusivamente teoretica.
Se, da un lato, è vero che Mancini volle salvaguardare il principio di divisione dei Poteri, negando al giudice il potere di annullamento, la relazione da lui resa alla Camera s’incentrò sulle disfunzioni che egli colse nell’attività del Conseil d’État. Quest’ultimo costituiva il modello dei sistemi dualistici, ma Mancini vi ravvisò un’istituzione incline a secondare le esigenze del Potere esecutivo. Essa, anzi, sarebbe stata concepita dal Primo Console proprio con questo scopo.
Per altro verso, la prolusione di Spaventa, benché si preoccupasse di garantire la tutela di quegli interessi che non assurgevano al rango di diritti civili e politici, indugiò nell’illustrare come la mancanza di un giudice dell’annullamento avesse favorito il diffondersi di situazioni di malaffare e di parzialità in seno ai vari apparati burocratici, le cui anomalie furono puntigliosamente passate in rassegna da chi poi sarebbe diventato il primo presidente della Quarta Sezione.
Tanto nell’adesione operata nel 1865 al sistema del giudice unico, quanto nella restaurazione del giudice speciale avviata nel 1889, le circostanze storiche ebbero un peso equivalente a quello delle valutazioni dogmatiche.
È, anzi, singolare constatare che le preoccupazioni, di cui i due studiosi si fecero custodi, non furono troppo divergenti. Si attuarono sistemi di giustizia diversi, se non contrapposti, per risolvere problemi analoghi.
3.- Dal 1889 sono trascorsi centotrent’anni, senza che il sistema dualistico sia più stato discusso.
Esso è stato consolidato dalla Costituente, nel cui seno non prevalse l’opinione di Calamandrei, il quale favoriva l’abolizione del giudice speciale, ritenendone esaurita la funzione.
Dall’entrata in vigore della Costituzione, però, sono passati altri settant’anni.
Si tratta di un periodo di tempo che assume valore non solo in virtù della sua estensione, ma anche perché sono cambiati sia la società italiana, sia il modo con cui le istituzioni pubbliche si atteggiano, sia il modo con cui esse sono interpretate da chi vi è preposto.
In questa prospettiva, si potrà tornare a considerare l’opportunità di mantenere un sistema dualistico, alla luce di una rinnovata valutazione sia dei costi sia dei benefici che esso comporta in termini di effettività di tutela, onde verificare se il saldo si confermi a favore della soluzione attuata.
4.- Il discorso, per la verità, dovrebbe essere allargato anche alle altre giurisdizioni speciali. Esse sono state mantenute, a dispetto di quanto previsto dalla VI disposizione transitoria e finale, e sembrano ulteriormente propagarsi, con sembianze surrettizie o para-giurisdizionali.
Se è difficile comprendere, ad esempio, perché sia stata conservata la giurisdizione pensionistica in capo alla Corte dei conti (una volta trasferito il contenzioso sull’impiego pubblico al giudice ordinario), per altro aspetto, certe forme di risoluzione delle controversie affidate ad alcune Autorità, definite indipendenti in ragione della titolarità di una funzione “neutrale”, sembrano davvero dissimulare una specie di giudizio.
Vi sono poi le ipotesi, diffuse, di giurisdizione domestica riservate a determinati corpi politici o agli esercenti alcune professioni, i cui statuti sono stati recentemente rinnovati, senza che – salvo qualche eccezione – ci si chiedesse se i nuovi consigli di disciplina non comportassero una violazione sostanziale dell’art. 102 Cost. e della citata VI disposizione.
Dopo che il parere delle sezioni consultive ha acquisito natura rigidamente vincolante, vi è, infine, l’equivoca posizione del ricorso straordinario, il quale è del tutto equiparato ad una vera forma di giurisdizione, senza, però, che si possa esplicitamente affermarlo.
È ancor più ambigua la posizione del ricorso straordinario, perché la giurisdizione è, ivi, esercitata in modo da sovrapporsi a quella amministrativa di legittimità. Una sorta di specialità nella specialità. Ma risolta con l’affidamento sostanziale della lite allo stesso soggetto.
Il che, incidentalmente, fa dubitare dell’utilità di conservare il rimedio, il quale potrebbe, forse, essere più semplicemente sostituito da un ampliamento generale dei termini per l’esercizio dell’azione di annullamento prevista dall’art. 29 c.p.a.
5. – Non si pone, dunque, solo un problema di mantenimento del giudice amministrativo.
Si pone il problema di una molteplicità di giurisdizioni che, da un lato, introducono una serie di statuti particolaristici non sempre giustificabili, dall’altro complicano il sistema generale di tutela.
La loro esistenza è essa stessa un primo costo che si risolve, banalmente, nella necessità d’individuare il giudice titolare del potere di pronunciare la sentenza.
La suprema Corte, anche in tempi recenti, ha ricordato che la giustizia è tale se essa rende una risposta sul merito della domanda. Il rilievo del difetto di giurisdizione interna, pertanto, non dovrebbe avere ricadute definitive sull’esito della lite.
Ciò non ostante, talora accade proprio il contrario, perché questo errore è spesso capace d’impedire che si possa mai giungere ad una risposta sul merito, da chiunque debba essere data.
Va riconosciuto che la Corte costituzionale ha alleggerito questo pericolo, ponendo un limite all’espansione delle nuove forme di giurisdizione esclusiva e impedendo l’affermarsi, a Costituzione invariata, di un criterio di riparto incentrato sui blocchi di materie.
Nel frattempo, tuttavia, queste nuove figure di giurisdizione esclusiva sono state introdotte e, per di più, con riguardo a materie di fondamentale rilievo, sì da favorire, ai margini dei due complessi giurisdizionali, la creazione di varie terre di nessuno, la cui spettanza non è facilmente risolvibile con l’ambiguo strumento della c.d. occasionalità dell’esercizio del potere.
In merito, basterà pensare alle fattispecie inerenti alle occupazioni appropriative, circa le quali è dubbio se la decisione spetti sempre al giudice amministrativo.
Altrettanto potrebbe essere ripetuto per la materia dei servizi pubblici o per quella dei beni demaniali. Ulteriori profili problematici emergono per gli accordi di diritto pubblico, il cui contenuto provvedimentale è talvolta indefinito o ipotetico, sì da rendere poco chiara la qualificazione civilistica o pubblicistica della pattuizione e, quindi, incerta pure la relativa giurisdizione.
Più in generale, l’estensione di modelli privatistici all’azione degli enti pubblici contribuisce a creare casi in cui la giurisdizione non è facilmente decifrabile.
Anche la previsione della giurisdizione esclusiva (quale che sia il ramo dell’attività amministrativa interessato) per tutte le controversie sui silenzi, nonché per le altre forme di semplificazione crea zone ibride. Questo, almeno, se si aderisce all’ipotesi (che pare plausibile, a pena di negare l’utilità della stessa giurisdizione piena) secondo la quale in queste controversie l’accertamento si concentrerebbe sull’esistenza del diritto soggettivo che trova fonte nel titolo sostitutivo o semplificato.
Né, a mio parere, si può pensare che queste incertezze possano essere risolte dall’introduzione di un Tribunale dei conflitti, sia pure travisato da una sezione a composizione mista della Cassazione.
Una tale iniziativa, che forma oggetto di un recentissimo dibattito, muterebbe l’identità di chi è chiamato a decidere sulle ipotesi di giurisdizione oscura, ma non potrebbe ridurre i margini di errore, i quali non sono legati a chi è arbitro della giurisdizione, ma alla disciplina generale dei processi.
6. – Si obietterà che la translatio iudicii ha attenuato le conseguenze degli errori compiuti in punto di giurisdizione.
Questo è vero, ma solo in parte.
Per come è stata attuata (e non si sarebbe potuto fare altrimenti, salvo consentire l’elusione di eventuali decadenze), la translatio iudicii non è immune da difficoltà applicative.
Essa comporta il curioso onere di rispettare davanti ad un giudice i termini che valgono per un giudice diverso al quale, tuttavia, non ci si è rivolti.
Del resto, la trasposizione della lite da un giudice all’altro non è sempre agevole neppure quando le decadenze siano state rispettate.
Con la translatio iudicii, infatti, viene trasferita la medesima controversia che era stata originariamente instaurata. Il che significa che il giudizio deve proseguire con identità di parti, di causa petendi e di petitum.
In tal caso viene, quindi, richiesta una sorta di traduzione del libello introduttivo nella lingua del giudice ad quem, senza però la certezza della fattibilità di una tale traslitterazione e della sua fedeltà al testo originario.
Ad esempio, anche senza voler rinnegare una concezione soggettivistica, nel processo amministrativo sono centrali (ai fini della cosa giudicata e dell’efficacia conformativa) i motivi d’impugnazione, il cui rilievo, invece, è assai diverso nelle controversie proprie del giudice ordinario, dove, al più, essi descrivono le ragioni di un’incidentale disapplicazione.
Pertanto, una volta introdotta la domanda davanti al giudice ordinario con le forme e il contenuto propri della citazione, non è semplice convertirla in una domanda di annullamento davanti al giudice amministrativo, per la cui ammissibilità è prescritta l’indicazione specifica dei motivi di ricorso.
Lo stesso deve ripetersi per il petitum, che, se originariamente spiegato nei termini dell’annullamento, difficilmente potrebbe essere proposto davanti al giudice ordinario e viceversa.
Infine, anche l’individuazione delle parti necessarie nei due giudizi può adattarsi male al meccanismo della translatio iudicii.
S’ipotizza tutto ciò non solo perché viene affermato – ignoro con quanta esattezza – che il processo amministrativo non conosce l’istituto litisconsortile, ma anche perché si richiede, ai fini della ricevibilità del ricorso, la notificazione al controinteressato. Cosicché può verificarsi che alcune controversie, erroneamente introdotte davanti al giudice ordinario, non possano essere trasferite davanti a quello speciale se, al momento della loro originaria instaurazione, non sia stata intimata anche quest’ultima parte, vuoi perché ritenuta non necessaria, vuoi perché l’assenza sia stata ritenuta emendabile per il mezzo di un’eventuale integrazione del contraddittorio.
Per tutti questi motivi, l’istituto della translatio iudicii, inteso quale strumento per rimediare agli errori sulla giurisdizione, rischia di rivelarsi, in non pochi casi, sterile.
7. – Costituisce un problema separato quello legato alla possibilità che emergano casi di contrasto logico tra i giudicati.
È questo un fenomeno noto sin da quando è stata inaugurata la Quarta Sezione, ma è naturale limitarne le evenienze, stante il pregiudizio che esso genera in termini di certezza del diritto.
Se, dopo il Concordato, è difficile che esso si riproduca con le forme della c.d. doppia tutela, il contrasto può emergere secondo altri profili.
Vale richiamare il regime che è riservato alle questioni pregiudiziali, sulle quali il Consiglio di Stato può pienamente decidere, per quanto stabilito dall’art. 8 del codice.
Si tratta di questioni che possono riguardare diritti e sulle quali rimane la cognizione del giudice ordinario, senza che egli sia influenzato da come la questione sia stata risolta in un precedente giudizio amministrativo. Circa l’esistenza di quei diritti, è, quindi, possibile che il giudice amministrativo, prima, e il giudice ordinario, poi, giungano a differenti conclusioni.
Questo tanto più vale perché, nel giudizio amministrativo, è precluso alle parti di ottenere l’estensione del giudicato alla questione pregiudiziale (preclusione che non opererebbe, con l’unificazione delle giurisdizioni), nonché per il fatto che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 8 e 79 c.p.a., la sospensione del processo, in ragione della pendenza davanti al giudice ordinario di una lite a contenuto pregiudiziale, è puramente facoltativa.
8. – Dopo la riforma del 2000, nuovi costi del sistema dualistico acquistano evidenza perché esso consente, potenzialmente, una sorta d’invasione di un complesso giurisdizionale nella potestas iudicandi dell’altro.
Alludo alla cognizione sui diritti patrimoniali consequenziali, che oggi spetta in via generale al giudice amministrativo, sebbene questa previsione possa suscitare qualche perplessità, ancora una volta alla luce del numerus clausus delle giurisdizioni esclusive.
Il diritto consequenziale all’annullamento di un provvedimento di espropriazione, infatti, è quello, del tutto civilistico, di proprietà, sul quale il giudice ordinario è pienamente legittimato a pronunciarsi.
Lo stesso vale per il diritto al risarcimento del danno conseguente all’annullamento di un provvedimento lesivo d’interessi c.d. oppositivi. Tale risarcimento è posto a tutela, più che dell’interesse, del diritto soggettivo retroattivamente ripristinato. Anche in questo caso, si tratta, quindi, di una situazione giuridica soggettiva sulla quale il giudice ordinario potrebbe esercitare il proprio sindacato.
Tuttavia, dopo il giudicato reso in sede amministrativa sul diritto consequenziale, difficilmente il giudice ordinario potrebbe pronunciarsi sull’esistenza del diritto di proprietà restituito dall’annullamento dell’esproprio.
Una tale eventualità risulterebbe problematica anche se la controversia, sollevata tra le stesse parti del giudizio amministrativo, fosse fondata su un titolo diverso da quello collegato alle sorti della vicenda ablativa, quale ad esempio potrebbe essere una intercorsa usucapione.
A fronte di questa ipotesi si dovrebbe ripetere, invero, che il giudicato copre sia il dedotto sia il deducibile e che, quindi, il diverso titolo posto a fondamento del diritto non permette una nuova valutazione della sua esistenza, a meno di voler sostenere che l’accertamento amministrativo sui diritti consequenziali sia munito di un’efficacia di cosa giudicata atipica, perché ristretta a quegli specifici fatti costitutivi di cui quel giudice può conoscere.
Per quanto, invece, attiene alle ipotesi in cui i diritti consequenziali rilevino ai fini del risarcimento del danno, è più convincente ipotizzare che il giudice ordinario possa tornare ad occuparsi dell’esistenza del diritto leso.
Una tale prospettiva è sostenibile, se si accetta che la cosa giudicata si concentri sull’esistenza del separato diritto al risarcimento e non sul diritto che ha subito la lesione, la cui esistenza avrebbe carattere, ancora una volta, di questione pregiudiziale, perché attinente a una situazione giuridica soggettiva presupposta.
Se, a proposito di tale ipotesi, non si può, dunque, parlare di sovrapposizione alla giurisdizione ordinaria, si deve, tuttavia, riconoscere che vengono a riproporsi i problemi di contrasto logico di cui ho già fatto cenno e anche che, in capo al giudice speciale, viene a costituirsi un singolare iato di cognizione (concernente l’esistenza del diritto leso), sito tra l’accertamento compiuto sulla domanda costitutiva e quello compiuto sulla domanda risarcitoria.
9. – Proseguendo nell’indagine sui costi che impone il mantenimento di un sistema dualistico, non si può trascurare il vulnus che esso reca all’affermarsi di una stabile nomofilachia, la quale è attuazione del più ampio principio di certezza del diritto, ma che difficilmente potrebbe essere raggiunta se non fosse una autorità sola a provvedervi.
Anche a tal proposito, i limiti posti dal dualismo delle giurisdizioni risultano accentuati.
In primo luogo, l’esercizio di una separata funzione nomofilattica, in capo al Consiglio di Stato, risulta rafforzato dal potere, affidato alla Plenaria dall’art. 99 c.p.a., di pronunciare una sorta di “principio di diritto”, sia pure con conseguenze e con effetti diversi da quelli dell’art. 384 c.p.c.
Secondo un diverso profilo, l’insorgenza delle più numerose figure di giurisdizione esclusiva ha aggravato questa diarchia nell’esercizio della funzione, perché è evidente che ogni questione inerente a diritti trasferita al giudice amministrativo riflette un’uguale e contraria restrizione della cognizione ordinaria. Essa, quindi, è causa dell’impoverimento dei casi su cui la Cassazione è in grado di dettare un indirizzo interpretativo unitario.
Passando alle questioni applicative, è facile rendersi conto di come tale separazione nella titolarità della funzione nomofilattica produca una concreta diversità di regimi interpretativi.
Dopo il 1999, le fattispecie che costituiscono il banco di prova sono quelle risarcitorie, per le quali gli orientamenti interpretativi della Cassazione sul nesso di causalità, sulla prova del danno, sull’elemento psicologico e, prima dell’art. 30 c.p.a., sul concorso del danneggiato sono diversi da quelli fatti propri dal giudice amministrativo.
Lo stesso deve dirsi per il modo con cui vengono applicate le clausole generali del diritto civile e in ispecie quella di buona fede.
Tuttavia, in mancanza di oggettive situazioni scriminanti, che possano dirsi tali perché recepite da puntuali e ragionevoli previsioni di diritto positivo, il fatto che gli elementi dell’illecito o la valutazione della buona fede vengano valutati diversamente solo perché la controversia è, accidentalmente, dedotta davanti ad un giudice anziché davanti ad un altro si risolve in una sostanziale e ingiustificata disomogeneità di trattamento tra i cittadini.
La Cassazione, talvolta, cerca di porre rimedio ricorrendo alla figura dell’eccesso di potere giurisdizionale e trattando sostanziali questioni inerenti alla violazione di norme di diritto come se fossero questioni sulla giurisdizione, della quale viene ampliato il concetto. In disparte i rilievi della Corte costituzionale sulla legittimità della prassi, tale soluzione si rivela però asistematica e, per di più, inefficace, giacché una pronuncia formalmente resa ex art. 360, n. 1, c.p.c. non può avere, per il giudice al quale venga restituita la decisione, la medesima efficacia prescrittiva di una sentenza che enunci il principio di diritto da applicare.
10. – Un altro costo del sistema dualistico è di carattere sistematico.
L’attuazione del sistema dualistico, in Italia, ha comportato la conseguenza indotta di far emergere quella figura che è nota con il nome di interesse legittimo.
Essa, verosimilmente, non è una peculiarità dei sistemi dualistici in sé, visto che, in altri ordinamenti, in cui pur esiste il giudice speciale, dell’interesse legittimo non si parla affatto.
È verosimile, invece, che l’insorgenza dell’interesse legittimo sia conseguenza di come il sistema dualistico è stato concretamente attuato in Italia. Vale a dire attraverso una legge – quella istitutiva della Quarta Sezione – che, almeno nelle sue dichiarate intenzioni, non aveva lo scopo di creare un vero e proprio giudice e che, perciò, non cagionò l’abrogazione, altrimenti inevitabile, dell’allegato E.
Tutto ciò, probabilmente, ha favorito la necessità di riconoscere al Consiglio di Stato una sorta di riserva di giurisdizione raggiunta in modo diverso da quanto si fece altrove. Da queste circostanze derivarono il criterio della causa petendi e l’affermazione di un nuovo tipo di figura giuridica soggettiva.
I contorni dogmatici di detta figura sono sempre stati, però, assai vaghi, al punto tale che Franco Ledda non ha esitato a paragonare l’interesse legittimo all’alchemico flogisto. Un’entità di cui si postula fideisticamente l’esistenza, ma che nessuno è mai riuscito a isolare e a descrivere.
Non è il caso di soffermarsi sulla processione di teorie che si sono succedute: da quelle sostanzialistiche di Cammeo a quelle processualistiche di Guicciardi, per tornare poi alle varie accezioni sostanzialistiche emerse dopo gli studi degli anni ’70.
È, forse, sufficiente constatare un dato oggettivo, riassunto nell’emblematico interrogativo – ma che cos’è questo interesse legittimo? – che titolò uno degli ultimi studi di Mario Nigro.
Vale a dire che, in tutto questo periodo di tempo, non è mai stata raggiunta una diffusa convergenza su quale sia davvero il contenuto di detta situazione giuridica soggettiva.
Tale discordanza è un dato che, a mio avviso, merita di essere valutato in sé e per quello che è in grado di suggerire.
Intendo dire che, se non si riesce a convenire su cosa l’interesse legittimo indichi, non si può escludere che ciò avvenga perché questa figura, in realtà, sia priva di un’autonoma identità concettuale.
Ignoro se una conclusione, tanto radicale da portare a concludere con la massima di Occam, meriti di essere pienamente avallata, ma l’incertezza sui contorni dell’interesse legittimo non può essere trascurata.
Non di meno, su quel pilastro così indeterminato abbiamo costruito il riparto delle giurisdizioni, salvo indebolirlo vieppiù quando dell’interesse legittimo è stata predicata la risarcibilità e constatarne, infine, l’ardua armonizzazione con il diritto sovranazionale che se ne astrae.
La riconduzione della giurisdizione davanti ad un complesso unitario produrrebbe dunque il beneficio di ridimensionare il valore di una figura sfuggente, senza che, verosimilmente, ne debba derivare un deficit di tutela.
Almeno così sembrerebbe, se guardassimo a quegli altri sistemi in cui la tutela, pur prevedendo un insieme di actiones simili a quelle italiane, è posta a protezione di indifferenziati Rechte.
11. – Per completare la rassegna dei costi che il mantenimento del sistema dualistico cagiona, non resta che dar conto di due ultimi rilievi, questa volta di carattere quasi fattuale.
Il primo deve intendersi un costo in senso stretto, giacché è evidente che mantenere una pluralità di giurisdizioni comporta la necessità di sostenere anche una pluralità di apparati strumentali al loro funzionamento.
Ciò si traduce in maggiori esborsi per la spesa pubblica, verso i quali non si deve mantenere un atteggiamento di per sé ostativo, a patto che l’investimento, obiettivamente, meriti.
Il secondo rilievo attiene ai profili di minore indipendenza di cui il giudice speciale godrebbe.
Il tema, a mio avviso, non può essere affrontato da un punto di vista solo astratto.
L’indipendenza di un organo giudicante va valutata anche in relazione alle specifiche circostanze storiche, oltre che tenendo presente l’inesplicabile foro interno di chi esercita la funzione. Peraltro, una valutazione sul tema rischierebbe di essere falsata dalle soggettive percezioni dell’osservatore.
Si debbono, non di meno, registrare alcuni dati anch’essi oggettivi, che ineriscono all’imponente calo del contenzioso.
Le cause di un tale fenomeno non sono facilmente individuabili, anche perché, probabilmente, sono plurime.
Non si può escludere, tuttavia, che a questa deflazione concorra una sorta di diffusa sfiducia verso il rimedio la quale, se fosse confermata, non esprimerebbe un sintomo di buona salute del sistema di tutela offerto e, insieme, dell’indiretto controllo che suo tramite è compiuto sull’apparato pubblico.
Sì che il problema dell’indipendenza verrebbe a dimostrarsi attuale non perché il giudice amministrativo potrebbe non essere terzo, ma perché quel giudice non sarebbe più percepito come terzo.
Non mi esporrò ad una valutazione di quei profili già fatti oggetto di altrui indagine e che attengono al potere di nomina governativa di parte dei Consiglieri di Stato e alla frequente attribuzione ai medesimi d’incarichi di alta amministrazione. Quasi a suggerire l’esistenza di una sorta di vasi comunicanti, se non di vera osmosi, tra il Potere esecutivo e quello giudiziario.
Toccherò, invece, due diversi aspetti.
Il primo attiene alla scarsa indipendenza, per come è normativamente descritta, della figura dello stesso Presidente del Consiglio di Stato, a cui la legislazione ha affidato rilevanti poteri di organizzazione e di disciplina, ma la cui nomina – come è stato recentemente dimostrato – costituisce un’effettiva prerogativa dell’Esecutivo.
Il secondo aspetto attiene alla concentrazione in capo a poche decine di individui della potestà decisionale su tutte le questioni di diritto amministrativo. Concentrazione che in primo grado è anticipata dal troppo esteso elenco dei casi di competenza funzionale.
Tale concentrazione riecheggia quella dell’originario Conseil d’État, verso la quale Mancini aveva rivolto, appunto, le sue critiche. Essa è fonte in sé di potenziali pericoli, perché implica una maggiore facilità di condizionamento e si contrappone alle maggiori garanzie che una più ampia diffusione del controllo giurisdizionale potrebbe fornire.
Se, infine, fosse consentita una valutazione di merito, più che al contenuto delle sentenze si dovrebbe porre attenzione ai tempi del giudizio i quali, per il peculiare modo con cui è stata applicata la vocatio iudicis, subiscono l’incidenza di chi, essendo preposto alla cura dei ruoli, è in grado di far avanzare una controversia rispetto ad un’altra o anche di spingere una lite sul binario della perenzione ultraquinquennale.
Quest’ultimo è un singolare istituto, che venne introdotto come misura eccezionale in occasione della creazione delle sezioni regionali della Corte dei conti e con il consequenziale trasferimento alle stesse delle controversie previdenziali pendenti presso la sede centrale.
Una volta applicato anche al processo amministrativo, esso, però, ha perso il suo carattere di misura straordinaria, rimanendo in vigore pur dopo lo smaltimento del contenzioso arretrato. Cosicché, per suo tramite, il sistema consente al giudice di sottrarsi al dovere di rispondere sul merito della domanda in ragione del suo stesso inadempimento nel fissare l’udienza di trattazione.
Per alcune controversie, a cui si riferiscono gli artt. 119 e 120 c.p.a., è stata, poi, la stessa legge a prevedere una specie di corsia preferenziale. Ma tale precedenza è pagata a prezzo di un rallentamento del restante contenzioso ordinario, tanto più concreto perché alcune infelici normative interne attribuiscono rilevanza disciplinare al comportamento di quei magistrati che superino le soglie sui carichi di lavoro.
Una valutazione su come vadano gestite le risorse della giustizia amministrativa la quale assuma a utile criterio solo il maggior interesse pubblico di alcune controversie non è, tuttavia, affidabile e contesto che il Consiglio di Stato debba esaurire il suo compito nell’essere il giudice dell’economia nazionale (come pure è stato sostenuto).
Il grado di giustiziabilità che uno Stato confida ai suoi cittadini va valutato anche riconoscendo che la risoluzione in tempi accettabili di una pur minuscola lite è, per chi la propone, non meno importante.
12. – A fronte dei costi del mantenimento del sistema dualistico, vanno esaminati i rilievi che si contrappongono all’unificazione delle giurisdizioni.
Tra questi, quello più risalente, ma che viene ripetuto, attiene alla specializzazione tecnica, raggiunta dal giudice amministrativo nel conoscere le controversie a lui affidate e in particolare nel controllo ab externo sulla discrezionalità.
Questo è un argomento al quale non si può negare consistenza, benché, già nel 1911, esso fosse stato considerato transeunte da Federico Cammeo, il quale auspicava una più diffusa conoscenza della nostra disciplina.
Occorre, perciò, essere consapevoli che abbandonare il giudice speciale comporterebbe anche il rinunciare ad una consolidata sistematica del diritto sostanziale: proprio di quel diritto amministrativo che è insegnato nelle accademie e che viene tramandato nelle esoteriche Camere di Consiglio di Palazzo Spada.
Della sostanziale modificazione dell’intero regime sostanziale che l’unificazione delle giurisdizioni provocherebbe è data, del resto, una sintomatica premonizione in quel che è avvenuto con il transito al giudice ordinario delle controversie sul lavoro pubblico. Esso ha comportato l’insorgere di principi sulla patologia degli atti, sulla rilevanza della volontà e della funzione, nonché sull’affidamento dei terzi che sono piuttosto diversi da quelli a cui si era abituati.
Lo stesso vale ripetere quanto all’accertamento del fatto e quanto all’acquisizione delle prove. Si dovrebbe verosimilmente accettare che, da un processo quasi esclusivamente documentale, si passi ad un processo in cui avrebbe un’effettiva incidenza, oltre alla consulenza tecnica, anche la prova testimoniale, con i noti limiti che la stessa porta seco.
13. – Un altro ostacolo alla riunificazione delle giurisdizioni è legato ad evidenti problemi di inerzialità.
Unificare la giurisdizione richiede di riformare buona parte della Costituzione (nonché degli Statuti della Sicilia e del Trentino Alto Adige – Südtirol); impresa di non poco conto, vista l’ampia convergenza politica necessaria.
Ma si tratterebbe, anche, di sostituire un apparato consolidato con un altro, al quale affidare incarichi totalmente nuovi.
Se è prevedibile che, in tempi ragionevoli, verrebbe ritrovata una sorta di equilibrio, la gestione del periodo intermedio sarebbe verosimilmente causa di incertezze e di disfunzioni, senza avere la sicurezza che il risultato sperato verrebbe infine raggiunto.
14. – Volendo provare a trarre un bilancio da questa rassegna, si potrebbe pensare che il numero degli argomenti a favore dell’unificazione del sistema giurisdizionale sia preponderante, rispetto a quello delle ragioni che vi si oppongono.
Sarebbe, tuttavia, miope sostenere che il peso di queste meno numerose ragioni non possa contrastare da sé le prospettive riformatrici.
Con tutto ciò, il discorso si trasferisce dalle valutazioni tecniche a quelle di quantità. Si sposta cioè sul campo delle valutazioni politiche, in questa sede precluse.
Mi pare tuttavia ragionevole sostenere che il mantenimento del sistema dualistico presenta alcuni aspetti problematici i quali, probabilmente, non esistevano o non erano considerati rilevanti, quando esso fu ideato.
Ugualmente, mi pare lecito sostenere che le circostanze storiche e, forse, persino il rilievo dei protagonisti delle vicende del 1889 e del 1948 fossero diversi da ciò che la situazione attuale descrive.
Mi pare, infine, plausibile concludere che il passaggio ad una giurisdizione unica eliminerebbe i problemi legati all’incertezza della giurisdizione sostituendoli, se mai, con meno preoccupanti problemi di competenza; attenuerebbe i pericoli di una nomofilachia incerta; priverebbe la sistematica dal peso di alcune figure equivoche mai pienamente comprese; libererebbe il giudizio da alcune incrostazioni che le sopravvenute riforme hanno cagionato; contribuirebbe, infine, ad una maggiore deconcentrazione del controllo giurisdizionale sull’attività degli enti pubblici e, più in generale, ad una maggiore indipendenza del giudicante dall’Esecutivo.
Spetta ad altri il compito di valutare se sia meglio conservare il sistema vigente. A chi parla sarà sufficiente che il cambiamento si consideri possibile, tenendo anche conto che una domanda di giustizia mal soddisfatta nelle sedi istituzionali cercherebbe comunque soddisfazione in altre sedi, a ciò non deputate. Da questo punto di vista pare, anzi, emblematico il fenomeno, a cui si assiste con più ricorrente frequenza, di sostituire il ricorso al giudice con un più informale esposto all’autorità inquirente, previa una rappresentazione penalistica di fattispecie che potrebbero, forse, essere circoscritte ad una mera valutazione di legittimità dell’azione amministrativa. Specularmente e in modo più distorto, persino certi fenomeni di malversazione potrebbero, in un certo senso, essere intesi da chi li pratica come un modo per sostituire una tutela giudiziaria incerta con rimedi propri e, per così dire, più rapidi ed efficienti. Un ricorrente sfiduciato è, potenzialmente, in grado di evolvere in un querelante incattivito e, infine, in un concussore rassegnato.
Resta, infine, una preoccupazione di cui dar conto.
Quando pure si accedesse ad un sistema riunificato, sarebbe anacronistico tornare tout court al regime della legge abolitiva del 1865.
Sul punto occorre essere espliciti, perché taluni propugnano la soppressione del giudice amministrativo non già per raggiungere scopi di maggiore effettività di tutela, ma per l’obiettivo contrario di indebolire il controllo giurisdizionale, che talvolta è criticato perché è ritenuto causa di arresto dell’azione degli enti pubblici.
Il compito del giudice, tuttavia, è quello di applicare le leggi che altri hanno introdotto ed è incoerente che proprio chi mantiene in vigore quelle leggi o le ha addirittura approvate pretenda poi che il giudice le tenga in non cale.
Se, talora, la normativa si rivela così complessa che per l’amministrazione è troppo arduo rispettarla, la responsabilità è del legislatore, non del giudice, il quale non può essere, per questo motivo, depotenziato.
Se, perciò, vi deve essere riunificazione, essa non sia attuata come si è provveduto con le controversie sull’impiego pubblico, le quali sono state consegnate al giudice ordinario senza il potere di caducazione del provvedimento.
A quel giudice, invece, si affidino le controversie di diritto amministrativo con la stessa, integrale, ampiezza di poteri che spetta adesso al giudice speciale.
Francesco Volpe
*L’intervento riprende la relazione tenuta il 6 maggio 2019 in Padova nel corso del convegno dal titolo “Monismo e dualismo del sistema di giustizia amministrativa”.