1. In questi giorni mi è capitato di leggere una non recentissima sentenza della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti della Toscana, quella del 6 giugno 2019, n. 241[1], sulla responsabilità contabile dell’Asbuc di Arni, frazione del Comune di Stazzema, che aveva concesso al suo presidente una determinata somma «a titolo di contributo alle spese legali necessarie per la difesa» in un processo instaurato contro il detto presidente nella sua qualità, appunto, di presidente dell’Asbuc.
Mi sono imbattuto così, anche nel commento (favorevole alla detta sentenza) di Alessandro Paire, intitolato Usi civici e Pubblica Amministrazione: alcune osservazioni tra responsabilità amministrativa e responsabilità contabile, che era stato pubblicato sulla Rivista di diritto agrario[2], e che non avevo letto per intero perché, nella mancanza della sentenza in esame, mi ero limitato a leggere, dopo le considerazioni introduttive (pp. 341-345) le pagine 346-350 sulla responsabilità del Comune nella gestione dei proventi dell’affrancazione, legittimazione, quotizzazione, eventuale alienazione dei beni civici, proventi da esso Comune gestiti nel difetto di una comunità entificata[3].
Ora sento il bisogno di analizzare la questione del danno erariale provocato dall’Asbuc di Arni, perché la sentenza citata mi ha lasciato l’amaro in bocca quando finisce con l’affermare che anche per l’uso irregolare dei propri fondi un gestore di domini collettivi risponde davanti al giudice contabile.
2. Punto di partenza è l’art. 1, comma 1, del Codice di giustizia contabile secondo cui «La Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all’erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica». Più precisamente punto di partenza non possono che essere le parole «responsabilità amministrativa per danno all’erario».
Orbene, la presenza di tali parole consente di concludere che sicuramente c’è danno erariale quando a «provocarlo» è una Pubblica Amministrazione. E, allora, c’è innanzitutto da chiedersi se il gestore di beni in proprietà collettiva – i domini collettivi, appunto – sia «Pubblica Amministrazione».
La l. 20 novembre 2017, n. 168 afferma – con valore dichiarativo – che l’ente esponenziale delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva ha personalità giuridica di diritto privato (art. 1, comma 2): dunque, il gestore di domini collettivi non è un ente pubblico e non lo è nemmeno l’Asbuc, qualora la comunità titolare di diritti di uso civico e di proprietà collettiva non si sia costituita in un apposito ente. Dunque, non sono Pubblica Amministrazione le entità che gestiscono le proprietà collettive, proprio perché soggetti di diritto privato.
3. L’art. 100 della Costituzione prescrive che «la Corte dei conti partecipa (…) al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria». In altre parole, la giurisdizione contabile è prescritta ogni qualvolta vi sia un finanziamento pubblico e, quindi, sia necessario sindacare il conseguente utilizzo del denaro pubblico, così ricevuto, da parte del soggetto ricevente. E l’art. 2 della l. 21 marzo 1958, n. 259, al fine di stabilire quali siano gli enti a contribuzione ordinaria, afferma che sono contribuzioni ordinarie quei contributi che una Pubblica Amministrazione assume a proprio carico, con carattere di periodicità, per la gestione finanziaria di un ente.
Dalla sentenza non si ricava che l’Asbuc di Arni ricevesse periodici contributi dal Comune o da altra P.A. D’altronde disposizioni normative che riconoscono, a favore delle Asbuc, periodiche contribuzioni pubbliche, mi pare che si rinvengano solo a favore delle «associazioni» dell’Italia centrale, ovverosia di alcuni di quei soggetti di cui alla l. 4 agosto 1894, n. 397 sull’ordinamento dei dominii collettivi nell’ex Stato pontificio (c.d. legge Tittoni)[4]: cosicché, nel caso che qui ci occupa, non è questo il punctum fondamentale della sentenza.
Dunque – ripeto – non è questa la ragione per la quale all’Asbuc di Arni è stato addebitato il danno erariale per avere concesso al suo presidente una determinata somma a titolo di contributo alle spese legali necessarie per difendersi in un processo instaurato contro di lui nella sua qualità di presidente della stessa Asbuc.
La «vera» ragione sarebbe stata individuata nella giurisprudenza, ormai consolidata e costante, sulla sussistenza della giurisdizione contabile. Infatti, sin dalla ordinanza 1° marzo 2006, n. 4511 le Sezioni Unite della Corte di cassazione[5] hanno espresso l’orientamento secondo cui sussiste la giurisdizione contabile anche nei confronti di coloro che abbiano ricevuto un contributo nell’ambito di un programma di spesa pubblica. La Cassazione, cioè, ha affermato che il punto di discrimine della giurisdizione ordinaria da quella contabile «si è spostato dalla qualità del soggetto (che può ben essere un privato o un ente pubblico non economico) alla natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché ove il privato, per sue scelte, incida negativamente sul modo d’essere del programma imposto dalla Pubblica Amministrazione, alla cui realizzazione egli è chiamato a partecipare con l’atto di concessione del contributo, e l’incidenza sia tale da potere determinare uno sviamento dalle finalità perseguite, egli realizza un danno per l’ente pubblico (…) di cui deve rispondere dinanzi al giudice contabile». In altre parole, è danno erariale quel fatto commesso dall’amministratore di un ente privato, destinatario di contributi vincolati, distratti irregolarmente dal fine pubblico cui sono destinati. In sostanza, tutti coloro che hanno la disponibilità di denaro pubblico, possono essere chiamati a rendere il conto della propria gestione in un procedimento di natura giurisdizionale davanti alla Corte dei conti.
Senonché, nel caso di specie non vi è stata la concessione di un contributo pubblico, dato che all’Asbuc di Arni non è stata «delegata» l’esecuzione di un programma pubblico; cioè nel caso di specie non vi è stata distrazione di contributi pubblici percepiti dal gestore della proprietà collettiva dei frazionisti di Arni di Stazzema, perché alla detta Asbuc non è stata «trasferita» dalla P.A. l’esecuzione di un suo programma (pubblico, per i fini e per le somme impegnate) che essa Pubblica Amministrazione, per la complessa organizzazione del progetto, non era capace di svolgere con la dovuta celerità e semplicità.
Il principio espresso dalla Suprema Corte va condiviso: infatti, mi pare ovvio che il privato, che «distrae» il ricevuto contributo pubblico dal «fine» della realizzazione del progetto pubblico in vista del quale gli è concesso il contributo, provochi un danno alla concedente Pubblica Amministrazione: cioè la P.A. che vuole raggiungere un determinato fine dall’esecuzione di un suo specifico progetto la cui realizzazione ritiene più opportuno «delegare» al privato, non raggiunge il suo fine a causa di tale distrazione e, perciò, subisce un danno[6].
4. Dall’insegnamento delle Sezioni unite si ricava che l’elemento essenziale della «pubblicità» di una persona giuridica va ricercato nella particolare rilevanza pubblicistica dell’interesse perseguito dall’ente. Solo che, nella specie dei domini collettivi, la loro funzione (pubblicistica) della «conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale nazionale» [art. 2, comma 1, lett. b), legge n. 168/2017] e la loro qualità (di valore pubblicistico) di essere «componenti stabili del sistema ambientale» [art. 2, comma 1, lett. c), legge n. 168/2017] esplicitamente riconosciute dal legislatore vengono affermate assieme con il riconoscimento della qualità di diritto privato di questi soggetti che non sono «costituiti» dallo Stato, ma che sono originariamente «basi territoriali di istituzioni storiche» [art. 2, comma 1, lett. d)] e «ordinament[i] giuridic[i] primar[i] delle comunità originarie» (art. 1, comma 1).
In altre parole, se l’interesse è pubblico quando la legge l’abbia imputato ad una persona giuridica tenuta a perseguirlo, qui – nel caso dei domini collettivi – l’interesse pubblicistico della tutela e della conservazione dell’ambiente è originario delle stesse comunità titolari delle proprietà collettive, cioè non è ad essi imputato dallo Stato. Di questa specificità degli enti gestori di proprietà collettiva occorre tenere conto.
5. Ma ecco che la Corte dei conti della Toscana con la sentenza qui in esame fa un «salto». Estrae dalle parole delle Sezioni Unite le parole «natura degli scopi perseguiti» per sostenere che vi è possibile danno erariale anche quando il privato sia, per sé stesso, esercente una funzione di valenza pubblicistica e si serva male del suo danaro[7].
La sentenza si limita a ripetere la «massima» della Suprema Corte, senza alcuna ulteriore disquisizione. Ipse dixit, e basta! Non merita ragionare sulle affermazioni della legge n. 168/2017 secondo cui, nel caso dei domini collettivi, l’interesse pubblicistico della tutela e della conservazione dell’ambiente è originario delle stesse comunità titolari delle proprietà collettive, cioè ad esse non è imputato dalla Pubblica Amministrazione: queste affermazioni non hanno, per il giudice contabile, alcun valore! Né contra si osservi che il caso sottoposto all’esame della Corte dei conti toscana è antecedente all’entrata in vigore della legge n. 168/2017 sui domini collettivi, perché è anch’esso insegnamento costante – e questa volta della nostra Corte costituzionale – che le affermazioni di tale legge sono di carattere dichiarativo e non costitutivo, dichiarativo di qualità già proprie (e ora solo «riconosciute») dei gestori delle proprietà collettive.
Allora mi chiedo se le altre parole «un danno per l’ente pubblico» della pronuncia delle Sezioni Unite, d’altronde coerente con l’art. 1 del Codice di giustizia contabile sulla «esponsabilità amministrativa per danno all’erario», non costituiscano – esse – il vero punto centrale e fondamentale del principio che è ormai un principio corretto e non contestabile. Mi chiedo, cioè, se il gestore di proprietà collettive, qualora abbia «distratto» fondi propri della comunità per fini non coerenti con la tutela e la conservazione degli usi civici di cui è gestore, provochi sì un danno, ma non già alla P.A., bensì alla comunità, la quale non è un ente pubblico ma è un soggetto con personalità giuridica di diritto privato: cioè un danno che infedeli amministratori di un soggetto privato provocano all’entità-soggetto privato, dunque «non già un danno per l’ente pubblico»: in siffatta ipotesi potrà intentarsi, contro gli amministratori «infedeli», un giudizio di risarcimento del danno davanti al giudice ordinario[8].
6. È possibile, però, ritenere che la sentenza della Corte dei conti della Toscana possa essere giustificata dal fatto che l’art. 4 della legge della Regione Toscana sugli usi civici del 23 maggio 2014, n. 27 sottopone al controllo del Comune i bilanci (preventivo e consuntivo) delle Asbuc toscane[9], o forse da un implicito richiamo dell’art. 64 del r.d. 26 febbraio 1928, n. 332, sul regolamento per l’esecuzione della legge n. 1766/1927 sugli usi civici che, nel disporre la costituzione del comitato per l’amministrazione separata dei beni civici frazionali, sanciva che tale amministrazione fosse «soggetta alla sorveglianza del Podestà del Comune, il quale potrà sempre esaminarne l’andamento e rivederne i conti»[10].
In altre parole, pur dichiarando che le Asbuc sono soggetti di diritto privato[11], la Toscana continua a considerare le Asbuc come una specie di «organo» del Comune. Sicché, proprio per tale potere di «vigilanza» e controllo dei Comuni sui conti delle Asbuc dei rispettivi territori, la Corte dei conti della Toscana potrebbe avere «esteso» la suddetta regola generale della giurisdizione contabile anche al caso dell’irregolare utilizzo del proprio denaro da parte dell’Asbuc di Arni di Stazzema.
Questa considerazione delle Asbuc come «inserite» in una situazione di strumentalità strutturale e organizzativa nei confronti del Comune e nella quale vengono a rivestire, appunto, una posizione simile a quella di un organo, implicherebbe una sovraordinazione tra enti, dove è ridotta la possibilità dell’ente sottoordinato di scegliere le modalità attraverso le quali conseguire i propri obiettivi[12].
Ma come si concorda siffatta situazione con la «capacità di autonormazione» che la legge n. 168/2017 riconosce ai soggetti gestori dei domini collettivi [art. 1, comma 1, lett. b)]?
7. Sorge, allora, la necessità di sapere cosa voglia dire “autonormazione”.
È l’autonormazione – come dice la stessa legge n. 168/2017 – l’[auto]amministrazione soggettiva e oggettiva, vincolante e discrezionale? E ciò fino a comprendere la possibilità autonoma di decidere in ordine alle spese e di disporre di esse in base alle proprie entrate?
Bisogna partire dal fatto che il concetto di autonormazione qui viene riferito a un soggetto le cui competenze e funzioni non sono date da una norma dell’ordinamento statuale, ma dal suo «ordinamento giuridico primario» che lo Stato riconosce nella sua individualità. L’autonormazione dei domini collettivi è, allora, in funzione della natura consuetudinaria del rapporto tra collettività e bene fondiario, per cui essa si esprime nella capacità della comunità di regolamentare sia la struttura e la composizione dei propri soggetti esponenziali, sia le loro funzioni e competenze, sia le modalità della gestione economica del proprio patrimonio. Autonormazione significa, in sostanza, assenza di subordinazione del soggetto gestore del dominio collettivo rispetto alla Pubblica Amministrazione nell’attuazione di quanto concerne le finalità dei beni oggetto della proprietà originariamente ad esso riservata, finalità che tale gestore è chiamato ad effettuare in conformità, appunto, col proprio ordinamento primario. In altre parole, e come è stato detto per le «formazioni sociali» tra cui sono comprese le comunità titolari di domini collettivi, si tratta di entità «dotate di luce propria e non riflessa», espressione di una «società organizzante e non già organizzata»[13].
Se è così, il riconoscimento dell’autonormazione implicherebbe l’abrogazione[14] di quelle norme regionali che subordinano gli assetti fondiari collettivi alla Pubblica amministrazione e che attribuiscono al Comune la vigilanza sulla gestione patrimoniale e contabile delle Asbuc, soggetti gestori della proprietà collettiva di cui sono titolari le comunità dei cittadini delle frazioni?
8. Il fatto importante è che la materia dei domini collettivi è un «ordinamento civile» e, in quanto tale, materia di competenza esclusiva dello Stato [art. 117, comma 2, lett. l) Cost.][15]. In altre parole, la disposizione che «riconosce» l’originaria capacità di autonormazione del gestore delle proprietà collettive verrebbe «contraddetta» da quelle norme regionali che imponessero alle Asbuc di sottoporre all’approvazione del Comune i rispettivi conti.
Allora si impone di comprendere che cosa sia l’ordinamento civile, al fine di controllare se la disposizione sul controllo dei conti delle Asbuc da parte del Comune incida su un istituto del codice civile[16] o, più in generale, su altre materie ascrivibili al diritto privato in aggiunta all’ordinamento civile[17].
Si ricordi che, sotto la vigenza dell’originario art. 117 Cost., la Corte costituzionale aveva desunto il carattere «trasversale» del diritto privato quando, con la sentenza n. 391 del 1989[18], aveva definito i contorni del suo limite, sottraendo alle Regioni i «profili civilistici» dei rapporti giuridici rientranti per il resto nella competenza regionale. Per cui, in sostanza, l’inserimento esplicito dell’ordinamento civile fra le materie di competenza esclusiva dello Stato nel nuovo art. 117 Cost. non è altro che la continuità della formulazione (dottrinale e giurisprudenziale) del limite del diritto privato che, così, è rimasto fondamentalmente inalterato.
Orbene, l’abrogazione dell’art. 12 del codice civile sulle persone giuridiche private – norma che sottoponeva al riconoscimento della Pubblica Amministrazione, con decreto del Capo dello Stato, l’acquisizione della personalità giuridica di soggetti privati e quindi della loro capacità di agire sul piano economico – ad opera dell’art. 11, d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361, è conferma che per l’ordinamento regola civilistica fondamentale degli enti privati è la «libertà» di amministrazione dei rispettivi beni con la «esclusione», perciò, di possibili disposizioni che li subordinino al controllo dell’autorità governativa così come ancora è prevista per le fondazioni. Dunque, una legge regionale, qualora incida sulla disposizione della legge n. 168/2017 sul punto della capacità di autonormazione dei gestori delle proprietà collettive, finisce con l’incidere su un «istituto» di diritto privato di competenza esclusiva dello Stato.
9. Nella materia dei domini collettivi – materia di competenza esclusiva dello Stato – potremmo trovarci di fronte a una norma di legislazione regionale che contraddica alla legge statale, cioè potremmo trovarci dinnanzi ad una norma regionale contra legem statale che, dettante in forza della competenza esclusiva dello Stato, è quella che regola legittimamente il fatto controverso.
La norma regionale «merita» di essere abrogata; ma l’abrogazione non può avvenire ipso iure ma conseguirà soltanto per la pronuncia del giudice delle leggi investito del problema; e l’abrogazione avrà incidenza erga omnes.
Ma non potrebbe essere «disapplicata» dal giudice ordinario che, nel caso a lui sottoposto, si trovasse a dover scegliere nell’applicazione dell’una o dell’altra norma?
L’istituto della disapplicazione è «antico». Un potere di disapplicazione è stato riconosciuto sin dai primi anni susseguenti all’unità d’Italia nei confronti dei regolamenti non conformi alla legge e degli atti amministrativi illegittimi, in applicazione dell’art. 5 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Al giudice amministrativo spettava l’annullamento dell’atto illegittimo, al giudice ordinario competeva la disapplicazione dello stesso.
Il fatto, però, che qui non si tratta di provvedimenti amministrativi; si tratta di atti legislativi.
Nel nostro sistema vi è una situazione in cui il giudice ordinario può disapplicare una disposizione avente forza di legge. Quando il giudice italiano si trova di fronte ad un contrasto tra una legge di provenienza statale ed una di fonte comunitaria, egli è tenuto a non applicare – cioè a «disapplicare» – la prima e ad applicare la seconda, con il solo limite dei princìpi fondamentali e dei diritti inalienabili garantiti dalla nostra Carta costituzionale. Infatti, la regola è che: a) se la norma comunitaria è posteriore alla norma interna (statale o regionale), quest’ultima è caducata per la sopravvenienza della norma comunitaria; b) se la norma interna sopravvenuta è incompatibile con la norma comunitaria, il giudice nazionale può constatarne direttamente l’incompatibilità[19] e quindi non applicare la norma interna, che così non «viene in rilievo» – cioè è irrilevante – per la soluzione della controversia, senza però che si possa parlare di abrogazione o di caducazione o di invalidità della norma nazionale; c) comunque, in caso di più interpretazioni della norma interna, occorre sempre scegliere quella più coerente con le prescrizioni dell’Unione europea, e ciò per il principio di presunzione di conformità della normativa nazionale a quella comunitaria[20].
Analogicamente, è possibile disapplicare la norma regionale che assoggetta le Asbuc al controllo contabile dei Comuni (e, quindi, poi al controllo della Corte dei conti), per dovere applicare la norma della legge n. 168/2017 sulla capacità di autonormazione dei soggetti gestori di domini collettivi?
La dottrina non nega in modo assoluto la disapplicazione di un atto normativo, riconoscendo a qualsiasi giudice nel corso di un giudizio, al fine della risoluzione di un’antinomia all’interno dell’ordinamento, il potere, appunto, di disapplicare la norma contra legem, con incidenza soltanto inter partes, cioè limitatamente alle parti del giudizio[21]. Tuttavia, la Corte costituzionale si è trovata investita della questione dell’esercizio da parte del giudice ordinario (la stessa Corte di cassazione nel caso di specie) del potere di disapplicare direttamente le leggi regionali ritenute illegittime, senza provocare il giudizio della Corte costituzionale a cui è riservata, in via esclusiva, la sindacabilità della legittimità delle leggi statali e regionali. Nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto che alcune leggi regionali (aventi per oggetto norme sugli scarichi di insediamenti suinicoli) fossero illegittime per avere interferito nella materia penale riservata allo Stato. Ma la Corte costituzionale ha definito abnorme il potere che la Corte di cassazione si era attribuita, quello di potere disapplicare la norma regionale.
10. Occorre prendere atto di tale insegnamento: quindi, non è ammissibile che il giudice disapplichi una norma regionale che sia in contrasto con una norma statale in una materia riservata alla competenza esclusiva dello Stato. L’unica via possibile da seguire sarebbe quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma regionale davanti al giudice delle leggi.
Ma a questo punto mi si consenta di chiedere perché mai il giudice dovrebbe sollevare questione di costituzionalità se, attraverso l’interpretazione, fosse possibile ricavare un significato del testo conforme a Costituzione? Non dovrebbe, cioè, accettarsi l’insegnamento secondo cui l’incostituzionalità tende a configurarsi come extrema ratio? come esito del «fallimento dell’interpretazione»[22]?
C’è una disposizione legislativa regionale [i conti delle Asbuc sono soggetti al controllo dei Comuni] in contrasto con una disposizione legislativa statale [le Asbuc hanno capacità di autonormazione e di autoamministrazione]; ma la norma regionale è «sorretta» da una disposizione legislativa statale [le amministrazioni delle Asbuc, quali entità con funzioni pubblicistiche, sono soggette alla giurisdizione contabile]. In altre parole, la legge della Regione Toscana, che dispone il controllo del Comune sui conti dell’Asbuc, viene assunta dalla toscana Corte dei conti a conferma della interpretazione data dalle Sezioni Unite della Corte Suprema all’art. 1 del Codice di giustizia contabile nel caso di «distrazione» delle risorse del patrimonio collettivo dallo scopo della sua tutela e valorizzazione con conseguente danno erariale. L’intreccio delle interpretazioni delle due disposizioni legislative impone di riconsiderare, non tanto il contrasto – che è evidente – fra la disposizione dell’art. 4 della legge regionale n. 27/2014 sul controllo dei Comuni sui conti degli enti titolari di usi civici e la disposizione della legge statale n. 168/2017 sulla capacità di autonormazione e amministrazione dei soggetti gestori di domini collettivi, quanto la disposizione che ha per oggetto la competenza contabile.
Orbene, la lettera dell’art. 1 del Codice di giustizia contabile – «La Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi (…) di responsabilità amministrativa per danno all’erario» – dalla Corte dei conti della Toscana è interpretata secondo la massima espressa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nell’ordinanza del 1° marzo 2006, n. 4511: la giustizia contabile si estende anche alle operazioni di qualsiasi genere poste in essere dai gestori dei domini collettivi perché costoro, anche se soggetti di diritto privato, svolgono la funzione pubblicistica della tutela e valorizzazione del patrimonio delle collettività[23].
Ma se tale disposizione interpretata in questo modo dalla Suprema Corte fosse suscettibile di diversa interpretazione?
Riconoscendo che la differenza tra «disposizione» (il testo normativo) e «norma» (la regola)[24] impone che la «norma» vada estratta solo da una disposizione intesa in modo conforme alla Costituzione, e riconoscendo che, da parte sua, è sicuramente conforme a Costituzione il potere di autonormazione dei gestori dei domini collettivi delle originarie comunità quali formazioni sociali per lo sviluppo (ex art. 2 Cost.) della personalità dei loro membri e quali ordinamenti giuridici primari per la tutela (ex art. 9 Cost.) del paesaggio e dell’ambiente, la regola del potere di autonormazione, che garantisce la «libertà» delle comunità titolari di domini collettivi dalle «ingerenze» della Pubblica Amministrazione, non finirebbe con il rappresentare la pietra di paragone su cui saggiare il significato delle disposizioni che in quella finiscono per appuntarsi? Cioè, dalla disposizione del Codice di giustizia contabile non potrebbe trarsi la norma secondo cui la giustizia contabile deve arrestarsi quando il «fatto» del gestore dei domini collettivi è espressione del suo potere di autoamministrazione, come nel caso della gestione delle proprie risorse?
Se fosse così (come mi pare che sia), non si dovrebbe più sostenere il ricorso a disapplicare la «divergente» legge regionale che sottopone al controllo dei Comuni (e, di conseguenza, alla Corte dei conti) i conti dei gestori delle Asbuc, ma si procederà a interpretare la disposizione su cui detta legge regionale si fonda e ciò in modo che essa risulti conforme alla Costituzione, ricorrendo a quel procedimento ermeneutico c.d. di «costituzionalità conforme» riconosciuto a disposizione di ogni giudice[25].
Applicando l’insegnamento secondo cui la coerenza dell’ordinamento «deve essere ricercata sul piano costituzionale»[26], nei casi di cui alle sentenze delle Corti dei conti qui considerate anche la disposizione del Codice della giustizia contabile dovrebbe, allora, essere interpretata in senso costituzionalmente conforme, superando il significato che dette Corti dei conti hanno ritenuto di ricavare, sulla base del dictum delle Sezioni Unite, dalla sua lettera.
11. Comunque le varie considerazioni da me esposte mi paiono, tuttavia, che potrebbero servire a definire nel merito i casi portati davanti alla Corte dei conti.
In altre parole se, con riferimento all’art. 1, comma 1, lett. b) della legge n. 168/2017 sulla potestà di autonormazione dei gestori di domini collettivi, non è possibile non solo «disapplicare» ma neanche «interpretare» in modo difforme dalla massima delle Sezioni Unite (come è intesa dalla Corte dei conti) la legge regionale che assoggetta alla valutazione dei Comuni la gestione delle Asbuc, ben si potrebbe tener conto, nell’esame del merito della controversia contabile, della totalmente contrapposta norma statale.
Sentenza n. 241 – Corte dei Conti Toscana
Alberto Germanò
*Si ringraziano il prof. Alberto Germanò e la rivista Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente (www.rivistadga.it) per aver concesso la pubblicazione del presente articolo.