Il nuovo PTRC individua nei Piani Comunali delle Acque uno strumento qualificante per fronteggiare i problemi della sicurezza idraulica di cui soffre in generale tutto il territorio del Veneto.
L’incidenza concreta di tali Piani rispetto agli obiettivi indicati dal PTRC è inevitabilmente condizionata dalla complessità della situazione idraulica che caratterizza la struttura idrografica e idrologica della Regione. Essa dipende dalla presenza da una parte di alcuni dei maggiori fiumi italiani, dall’altra di una rete minore, in parte naturale in parte artificiale, con elementi multiconnessi fra loro e spesso interferenti con la rete principale. Entrambe le reti, come purtroppo da tempo si è dovuto sperimentare, espongono periodicamente il territorio veneto a eventi alluvionali più o meno gravi, che coinvolgono sia aree urbanizzate sia importanti infrastrutture fra le quali alcune di recente realizzazione, destinate al potenziamento delle vie di comunicazione esistenti.
La soluzione dei problemi della sicurezza idraulica dei fiumi appartenenti alla rete idrografica principale sono correttamente demandati dal PTRC alla Pianificazione sovraordinata predisposta dall’Autorità del Distretto delle Api Orientali. Sulle relative criticità, conviene, tuttavia, sia pure brevemente, soffermarsi, essendo in numerosi casi la loro rimozione una premessa fondamentale per la formulazione delle soluzioni riguardanti la rete idrografica minore.
La gravità della situazione per i territori di pianura, è testimoniata dal confronto fra le portate massime in uscita dai bacini montani nel 1966 stimate in occasione della piena eccezionale dei primi giorni di novembre con le massime capacità di portata convogliabili dagli alvei dei fiumi nel loro corso di pianura.

La grande differenza fra queste grandezze evidenzia come in quell’occasione fossero inevitabili i sormonti e le rotture d’argine che si determinarono con estesi allagamenti, danni e numerose vittime. Nessun fiume veneto si trovò in grado di contenere il colmo di quella piena all’uscita in pianura. Fece eccezione l’Adige, per il quale fu decisivo l’intervento della galleria Mori-Torbole che scolmò nel lago di Garda circa 500m3/s, salvando Verona, la Bassa Veronese e più a valle ancora il Polesine.
Nei riguardi dei problemi registrati come conseguenza di una piena straordinaria ma non irripetibile non si può fare a meno di segnalare l’inerzia delle Autorità competenti in questi oltre cinquant’anni trascorsi da quella catastrofe, nonostante la Commissione De Marchi avesse fin da subito evidenziato le cause di quel disastroso fenomeno e suggerito i provvedimenti da adottare e gli interventi da realizzare per mitigarne le gravi conseguenze.
Le responsabilità di quanti hanno avuto e hanno compiti operativi nel campo della difesa del suolo e il remissivo comportamento dell’Autorità di Bacino, prima, e delle Autorità del Distretto Idrografico, poi, non trovano giustificazione se non in una interpretazione minimale da parte delle Istituzioni tecniche del proprio ruolo. Queste ultime non dovrebbero mai rinunciare a richiamare alla necessità delle scelte e dell’azione le Autorità politiche, alle quali spettano ovviamente le decisioni, essendo il campo della sicurezza idraulica di importanza prioritaria per la vita civile.
Con riferimento alle aree soggette alle piene dei fiumi maggiori del Veneto, condivisibile quindi il richiamo nel PTRC alle indicazioni delle Autorità del Distretto Idrografico ma forse sarebbe stato opportuno dare a quei vincoli un significato più stringente, assolutamente condizionante fintanto che non si inizierà seriamente a porre rimedio almeno alle più gravi fra le situazioni evidenziate nel novembre 1966. Da tempo ormai, accanto ai problemi riguardanti i grandi fiumi si registrano in tutto il territorio veneto fenomeni alluvionali di gravità più limitata, ma da affrontare per la loro fastidiosa frequenza, causati della rete idraulica minore. Si tratta in questo caso di fenomeni che sono almeno in parte riconducibili al ruolo negativo assunto da una programmazione territoriale che a partire dal secondo dopoguerra si è sviluppata senza riservare la dovuta attenzione alla complessità idraulica del territorio sul quale si intendevano calare scelte non sempre ponderate, più speculative che dettate da effettive necessità.
La realtà idraulica del territorio e la struttura del sistema idrografico minore che lo drena non sono quasi mai state considerate dai programmatori come un fattore condizionante l’espansione urbanistica, quanto piuttosto come un “accidente” facilmente superabile o addirittura da ignorare. Di questo modo di operare oggi si vedono le conseguenze, anche se è diffusa l’opinione che tutto dipenda dal Destino avverso. Se fino a qualche anno fa questo destino crudele ci colpiva con “eventi eccezionali” un giorno si e l’altro anche, da qualche tempo a questa parte sembra che si sa risparmiati da una variante: le “bombe d’acqua”. Sempre fuori causa, invece, le conseguenze determinati dalle scelte di una “programmazione allegra” e poco responsabile nell’uso del territorio. Si tende a confondere con una certa faciloneria la gravità dei danni subiti con la gravità dell’evento meteorico che li hanno prodotti. Bisognerebbe invece domandarsi se per caso una diversa occupazione del territorio da parte degli uomini che vi vivono non avrebbe potuto aiutare a contenere se non addirittura a evitare gran parte di questi danni.
Parlando di PTRC, che sullo stato del territorio si prefigge di intervenire stabilendo con la stesura dei Piani comunali delle Acque vincoli e regole stringenti, da rispettare, è opportuno in via preliminare soffermarsi brevemente sulle due cause principali che in questi anni hanno contribuito a portarci nella direzione sbagliata.
• La prima riguarda le scelte delle aree da occupare per accogliere gli insediamenti, fossero essi a uso civile o a uso industriale. Spesso su tali scelte, guardando ai problemi della sicurezza idraulica, hanno prevalso, più che criteri di valutazione oggettiva, le spinte dei portatori di interesse che non guardano mai alle conseguenze delle loro iniziative e alle loro ricadute negative sulla collettività. Prevale sempre l’interesse immediato nei ragionamenti di questi gruppi, mentre è normale, e purtroppo consentito dai controllori, spostare a debito futuro i problemi creati dalle iniziative intraprese, al cui rimedio provvederanno eventualmente le Istituzioni. Gli esempi in tal senso si sprecano e ciascuno, guardando al territorio in cui vive, potrebbe redigere senza difficoltà un lungo elenco. Non sfuggono a questo giudizio non positivo anche alcune importanti infrastrutture, necessarie ma progettate e inserite nel territorio senza tenere nel debito conto le sue problematiche idrauliche, che dovrebbero invece essere sempre condizionanti. Prevalgono altri aspetti, paesaggistici, estetici, ecc., dei quali non si disconosce l’importanza, ma che sono secondari rispetto a fenomeni che possono determinare danni e purtroppo anche vittime (un centinaio in occasione della piena del 1966).
• La seconda causa sulla quale soffermarsi riguarda la modificata risposta idrologica e idraulica delle aree destinate all’urbanizzazione. Si tratta dell’aspetto, più facile da comprendere, che passa comunemente sotto la definizione di “cementificazione del territorio”, sul quale inevitabilmente il più delle volte ci si sofferma per dare una spiegazione dei molteplici episodi di allagamento che si sono registrati in questi anni un po’ dappertutto (Figura 1) e che ancora si verificheranno, se non si realizzeranno i necessari interventi di mitigazione e non si cambierà passo nell’uso del suolo.

Rispetto a un territorio destinato alle attività agricole, senza dubbio le modificazioni determinate dall’urbanizzazione di estese superfici introducono importanti cambiamenti nella risposta idrologica del sistema.
A parità di impulso meteorico, infatti, sono innanzitutto ridotte le quantità di pioggia che si infiltrano nel sottosuolo (percolazione) e che vanno ad alimentare le falde sotterranee (Figura 2). I processi di infiltrazione sono un fattore mitigante, poiché le acque che si infiltrano in profondità sono restituite alla rete idrografica con tempi molto ritardati rispetto alla piena e di fatto sono sottratte al bilancio della piena stessa, attenuandone il colmo. Nello stesso tempo si incrementa la quantità di pioggia destinata a trasformarsi in portata, soprattutto di quella che ha tempi di residenza nel bacino idrografico più brevi (il cosiddetto deflusso superficiale) a scapito della frazione che giunge alla rete con tempi di residenza molto più prolungati (deflusso ipodermico e profondo). Si riducono egualmente i volumi di invaso disponibili sul terreno, come conseguenza della riduzione se non dell’eliminazione degli avvallamenti e in genere delle irregolarità delle quote della superficie del suolo. I due fattori insieme comportano, a parità di altre condizioni, un aggravamento delle portate massime che la rete idraulica è chiamata a trasferire verso valle.
Il più rapido trasferimento dei deflussi alla rete che si determina in un’area urbanizzata comporta un secondo effetto, più difficile da intuire, ma che non può essere ignorato. La criticità degli eventi meteorici che creano insufficienza delle reti di scolo si sposta verso gli eventi meteorici di minore durata, i quali generalmente si caratterizzano per una maggiore intensità della precipitazione rispetto agli eventi di maggiore durata. A parità di altre condizioni, il processo di trasformazione afflussi-deflussi genera inevitabilmente portate al colmo più elevate.

Sono questi gli effetti negativi e le dinamiche idrologiche che si osservano quando, forse in modo improprio, si parla della cosiddetta “cementificazione dei suoli” e dell’incremento dei contributi specifici delle aree interessate che essa comporta.
La gravità dei fenomeni che si innescano è aggravata anche dal fatto che nel momento della stesura dei Piani urbanistici le superfici coinvolte sono state e sono in molti casi individuate con un’ampiezza che supera le reali necessità. Quasi sempre, inoltre, è mancata e manca nella redazione di questi strumenti di pianificazione un’attenta riflessione su di un aspetto non proprio secondario, quale è l’incremento dei deflussi che dovranno essere recapitati alla rete di scolo.
In questa politica poco oculata di occupazione del suolo sono coinvolti grandi e piccoli centri, indifferentemente, con uno spreco di superfici che lascia il segno dal punto di vista idraulico (Figura 3).
In senso negativo sul processo di aggravamento delle portate da allontanare agiscono anche altri tipi di trasformazione, come quelle che si osservano in agricoltura quando le tradizionali reti di scolo dei terreni sono sostituite, per comodità e rapidità di coltivazione, dalle moderne tecniche di drenaggio sotterraneo. A queste trasformazioni si presta poca attenzione, ma è dimostrato che l’eliminazione dei cospicui volumi d’invaso resi disponibili dai sistemi tradizionali di scolo (fino a 150-200 m3/ha) aggrava i colmi di piena dei canali ricettori, pregiudicando il loro funzionamento idraulico e favorendo le esondazioni. Passando da un sistema di drenaggio tradizionale a uno a dreni sotterranei i contributi specifici di un terreno possono incrementarsi fino a quasi a raddoppiare, come è stato dimostrato da esperimenti specifici condotti a tal fine.
In queste situazioni le esondazioni della rete minore sono generalmente di scarsa importanza se interessano solamente aree agricole, ma diventano problematiche per i danni che comportano nei casi in cui, per la promiscuità delle reti di scolo che si è creata con recapiti nei canali di bonifica delle acque raccolte dalle reti del drenaggio urbano, gli allagamenti coinvolgono le aree urbanizzate, siano esse destinate agli usi sia civili o produttivi.

Di tutti i fattori citati, tuttavia, non c’è dubbio che quello che maggiormente incide sui danni potenzialmente pendenti sul nostro territorio sia la scelta inappropriata delle aree da destinare all’urbanizzazione. In tal senso la partita è praticamente perduta, guardando alle condizioni che si sono determinate, anche se è più che mai opportuno non continuare a procedere nella stessa direzione.
L’adozione di un nuovo PTRC, che guardi diversamente ai problemi idraulici connessi alla pianificazione territoriale, non è pertanto di scarso rilievo. Tutt’altro, se il Piano diventa effettivamente uno strumento incisivo, che elimina la possibilità di continuare sulla stessa strada, aggravando ulteriormente condizioni che in molti casi sono già critiche, e tenta di porre rimedio ai problemi che in questi lunghi anni si sono determinati.
Partendo da queste considerazioni e guardando al nuovo Piano con riferimento a quanto previsto nel Capo V – Articoli 20 e 21, non si può in generale non condividere i buoni propositi che vi sono espressi.
Sommessamente, tuttavia, e per l’ultima volta, riterrei in via preliminare di evidenziare che, parlando di difesa del suolo, sarebbe meglio non abusare del sostantivo idrogeologia e dell’aggettivo idrogeologico. L’idrogeologia (che è una scienza rivolta allo studio del moto delle acque sotterranee, ad esempio nelle falde) riguarda problemi del tutto diversi da quelli trattati nel PTRC che non riguarda i problemi della difesa idrogeolgica, quanto piuttosto alcuni temi della difesa idraulica e geologica, che sono tutt’altra cosa.
Ciò detto, mi pare che affidarsi nel PTRC a un Piano delle Acque redatto a cura dei Comuni da considerare come “strumento fondamentale per individuare le criticità idrauliche a livello locale ed indirizzare lo sviluppo urbanistico in maniera appropriata” sia un obiettivo ambizioso, che in generale è al di sopra delle capacità tecniche e finanziarie della maggior parte dei Comuni. Potrà essere un obiettivo alla portata dei Comuni più importanti e organizzati, ma non di tutti.
La complessità dei problemi da affrontare non sarà facilmente superabile dai piccoli Comuni, tanto più che le interferenze e le interconnessioni della rete idraulica minore e fra la rete minore e la rete principale dei grandi fiumi, per essere correttamente affrontate, potrebbero richiedere in non pochi casi la necessità di superare l’ambito territoriale del singolo Comune. I problemi sul tappeto potrebbero dover essere affrontati a scala sovra comunale ovvero a scala di bacino idrografico, quando addirittura non diventi necessario entrare nel merito delle disposizioni e delle previsioni stabilite dai Piani Stralcio di Assetto Idrogeologico (PAI) dei fiumi principali. Non è da escludere, infatti, che in alcuni casi le pericolosità idrauliche e geologiche indicate nel PAI non siano attuali a scala locale e che le Norme di Attuazioni stabilite dal Piano mal si prestino alle necessità di una corretta Pianificazione territoriale a scala maggiore.
Scorrendo i diversi punti dell’Art. 21, i concetti espressi sono condivisibili, anche se una loro rilettura potrebbe contribuire a eliminare fraintendimenti e alcune piccole contraddizioni.
Così agevolare da una parte il deflusso delle piene e incrementare dall’altra i volumi accumulabili nel terreno in apposite strutture [commi a) e b) – Punto 4 dell’Art. 21] sembrano provvedimenti mal conciliabili fra loro. Tanto più se si considerano i volumi di accumulo necessari per conseguire effetti apprezzabili.
I tombinamenti di fossati e corsi d’acqua dovrebbero essere solo soltanto vietati e non ammettere mai eccezioni come quelle che si aprono con l’inciso “fatti salvi quelli necessari” [punto 4 – Art. 21”].
Difficile supporre che con l’estrazione di materiale inerte dagli alvei si possa perseguire il “recupero morfologico di un corso d’acqua” [comma a) del Punto 8 dell’Art.21]. Sono ben altri gli interventi richiesti a tal fine, non ultimo quello di ripristinare nel fiume flussi di portata che non ci sono più a causa di una utilizzazione troppo spinta delle risorse idriche.

Allo stato dei fatti esistente, con riferimento al punto 8 dell’Art.21 sembra difficile, guardando alla “vita del fiume”, pensare di realizzare bacini di laminazione da destinare anche a bacini di accumulo delle acque quale riserva idrica.
Quanto alla prevista Valutazione della Compatibilità Idraulica [punto 3 dell’Art. 21] essa richiede implicitamente la capacità di valutare l’idoneità della realizzazione di nuovi insediamenti considerando “gli effetti idraulici che questi (insediamenti) possono creare nei territori posti a valle”. Conferma implicita che l’ambito comunale mal si presta alla migliore soluzione della compatibilità stessa, richiedendo in molti casi, come è opportuno, di guardare a un territorio più esteso.
Sempre con riferimento alla Compatibilità Idraulica essa corre inoltre il rischio di subire nel concreto la stessa fine del concetto, giusto, dell’Invarianza idraulica, a suo tempo stabilito. Ci si potrebbe chiedere al riguardo, per valutarne l’efficacia applicativa e crederci, quante sono state le iniziative di nuove urbanizzazioni richieste bocciate per non aver garantito tale invarianza. Forse nessuna.
Non sarebbe confortante se il concetto della Compatibilità Idraulica facesse la stessa fine a causa di un PdA non esente da qualche lacuna conoscitiva e prescrittiva.
Da ultimo, un punto importante sembra essere stato trascurato dall’Articolo 21 sulla sicurezza idraulica. È quello relativo alla possibilità, oggi non esclusa, di realizzare volumi interrati o seminterrati da destinare alla formazione di garages, taverne e altri servizi dell’edificato. Non avrebbe fatto male leggere nel nuovo PTRC che tali soluzioni sono proibite in tutte le aree soggette al pericolo di allagamento.
L’esperienza ha dimostrato che tali volumi si trasformano a volte in trappole mortali. Così è capitato ad Alessandria, dove nel quartiere Orti della città le acque esondate nel novembre del 1994 dal Tanaro fecero14 vittime fra le persone scese nei garage per salvare la loro automobile. Non diversamente è accaduto a Vicenza in occasione della piena del Bacchiglione dell’ottobre-novembre 2010, quando ci fu una vittima causata nello stesso modo.
Un comma che garantisca contro questi esiti nefasti meriterebbe pertanto di essere inserito, proibendo che si insista in soluzioni che sono state a suo tempo solo una “furbata” per sfuggire alle prescrizioni dei piani regolatori sui volumi edificabili, computati fuori terra ignorando quello che stava sotto.

Luigi D’Alpaos

 

* Intervento tenuto nel corso del XXI Convegno dell’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti sul tema: “Le nuove norme tecniche del piano territoriale regionale di coordinamento del Veneto 2020”, svoltosi a Castelfranco Veneto il 27 novembre 2020.

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