Questo intervento si propone lo scopo di sollecitare una riforma della professione forense, tale da essere adeguata alle trasformazioni che la società e il modo di amministrare la giustizia stanno conoscendo.
È innegabile che è in atti una fuga dal processo. Questo vale per il diritto civile e vale, dalla prospettiva di chi scrive, anche per il diritto amministrativo.
Segnali in tal senso si colgono anche dal contenzioso tributario.
Disincentivi alla controversia, mediazioni obbligatorie, incapacità del sistema processuale di erogare il servizio-giustizia in tempi accettabili e con risultati prevedibili, costi dello stesso servizio (sia per chi vi accede, sia per lo Stato che lo eroga) sono fattori che concorrono tutti in questo senso ed è sufficiente scorrere il numero dei ruoli, sia civili sia amministrativi, per avere conferma di quanto vado esponendo.
Qui non intendo affrontare il problema della bontà di questo nuovo fenomeno, anche se probabilmente vi sarebbe non poco da eccepire sulla sua opportunità e sulla congruità di certe decisioni che hanno fatto sì che la fuga dal processo venisse ad attuarsi.
Intendo, invece, partire dal dato di fatto della trasformazione in corso, ma in realtà già avvenuta, per valutarne le conseguenze e, quindi, per cercare di indicare i necessari rimedi ai nuovi problemi che vengono a emergere.
La disincentivazione del processo ha comportato, infatti, un allargamento dell’attività di consulenza giuridica e dell’attività stragiudiziale.
Guardando allo specifico caso di chi opera nel diritto amministrativo, il vecchio ricorso è oggi sostituito da una sorta di attività procedimentale, che tende ad anticipare l’emanazione del provvedimento sfavorevole o che mira ad ottenere il provvedimento ampliativo. Non si va più davanti al Tar per impugnare un’aggiudicazione o per ottenere un titolo edilizio, ma si preferisce ricercare soluzioni endoprocedimentali, magari “colloquiando” con l’autorità amministrativa.
Analoghe considerazioni, tuttavia, possono riprodursi anche a riguardo delle altre aree del diritto e del diritto civile in particolare.
In mancanza del giudizio, l’attività di consulenza sopperisce, dunque, alla sentenza del giudice, nel limite del possibile.
Da ciò deriva un ben evidente effetto.
L’avvocato, che è uscito dal tribunale e che è costretto a concentrare la sua attività nella consulenza e nello stragiudiziale, scopre di essere arrivato in una sorta di terra di nessuno.
Si sa, infatti, che non esiste una vera e propria riserva legale dell’attività di consulenza giuridica a favore degli iscritti agli albi forensi.
Ciò comporta che essa possa essere prestata anche da chi non è in tal modo qualificato.
Proprio, però, l’allargamento dell’attività di consulenza e stragiudiziale ha attirato nel medesimo settore numerosi professionisti di formazione diversa e non necessariamente giuridica.
Accanto alle, consuete, attività di consulenza prestate da geometri, ragionieri, dottori commercialisti, consulenti del lavoro, si assiste oggi al fiorire di vere e proprie strutture d’impresa le quali offrono una sorta di consulenza legale, sotto la forma di attività anche a carattere periodico e continuativo.
Ecco, dunque, l’emergere ad esempio di società che, a fronte di una sorta di abbonamento, distribuiscono “circolari” periodiche su come va applicato il codice degli appalti o su come vadano interpretate le norme in materia edilizia, paesaggistica o ambientale. E accade che gli enti pubblici, specie gli enti territoriali, concretamente si rivolgano a dette società, per far fronte alle proprie necessità.
Altre volte, dette società – o strutture imprenditoriali – forniscono risposte applicate a specifici casi concreti, sì che non è difficile assistere anche allo svolgimento di operazioni economiche importanti, e che richiedono un non comune approfondimento giuridico (quali sono, ad esempio, le cessioni societarie, la stipula di accordi di diritto pubblico, la preparazione delle offerte alle gare ad evidenza pubblica), in cui non compare mai un iscritto all’albo.
Né mancano società – di rilievo anche sovranazionale – che offrono “pacchetti” di assistenza multidisciplinare, che comprendono oltre a quella giuridica, la consulenza commerciale, finanziaria o fiscale.
La cosa produce, a sua volta, due ulteriori conseguenze, rispettivamente in capo a chi presta il servizio di consulenza e a chi se ne serve.
Entrambe vanno ritenute gravi, sfavorevoli e fonti di possibile pregiudizio.
Quanto al primo genere di conseguenze, l’avvocato, una volta cacciato dal processo, perde la sua specificità professionale, dal momento che la sua attività di assistenza stragiudiziale può essere, in larga parte, svolta anche da chi non è iscritto all’albo. Egli si trova, così, a competere in un mercato che vede altri attori e il suo titolo professionale viene ad essere largamente svuotato delle sue competenze specifiche, se non addirittura annullato.
Ciò, evidentemente, crea non poche difficoltà in capo a chi si trova ad affrontare una situazione del genere, dal momento che l’iscrizione all’albo è cosa non poco onerosa, sia sotto il profilo dei costi di esercizio sia con riguardo ai correlati oneri tributari, previdenziali, di aggiornamento e di sicurezza.
Questi sono costi che, in qualche misura, dovrebbero essere ripagati dal mercato in cui l’avvocato si trova ad agire.
A patto, tuttavia, che quel mercato esista e che, soprattutto, esso non sia frequentato anche da fornitori di servizi analoghi i quali siano ugualmente in grado di operare creando concorrenza, ma senza avere quell’oneroso addestramento culturale e professionale acquisito da chi veste la toga e senza i costi, propri o impropri, che sono tipici di uno studio legale.
Poiché, invece, esiste la situazione contraria, ecco che l’avvocato soggiace ad una sorta di dumping, proprio nel momento in cui, insieme al processo, sta perdendo una rilevante parte della propria attività.
Vi è tuttavia una conseguenza, della situazione che ho descritto, che ricade anche su chi chiede l’attività di assistenza stragiudiziale o di consulenza giuridica. E questa conseguenza è ancor più grave.
L’iscrizione all’albo professionale e, si ripete, gli oneri che sono alla stessa connessi non sono, infatti, solo un’inutile formalità.
L’iscrizione presuppone l’esistenza di una pur valutata professionalità a cui corrisponde una precisa assunzione di di responsabilità. Infine, essa richiede il rispetto dei doveri deontologici, i quali sono tutti stabiliti, direttamente o indirettamente, nell’interesse di chi richiede l’intervento dell’avvocato. In modo che questi possa avere un adeguato affidamento sulla bontà del servizio resogli.
Questi tre fattori – professionalità, responsabilità e deontologia – non si trovano (o non sempre si trovano) in capo a chi opera nello stragiudiziale senza essere titolare dell’iscrizione all’albo professionale a cui noi apparteniamo.
Spesso, anzi, non è neppure possibile risalire a chi abbia redatto e compilato quelle forme di consulenza su cui le società prestatrici di servizi stanno oggi orientandosi.
Si tratta di documenti provenienti da una data società che null’altro dicono sulla loro paternità. È perciò difficile conoscere chi ha operato all’interno della società, con quali qualifiche, con quale preparazione. È del tutto impossibile sapere se quel compilatore possa subire delle direttive sul contenuto della consulenza da rendere e a quali conseguenze egli possa esporsi nel caso in cui esse siano violate.
Ma, quando pure si riesca ad individuare l’autore dell’attività, mancano i tre fattori di cui ho fatto cenno e che sono posti a garanzia e a presidio di chi riceve il servizio.
Un tempo, questo difetto di garanzia era meno grave.
Quando la consulenza resa da soggetti estemporanei (perché non qualificati, non responsabili e sottratti ai doveri deontologici) si fosse rivelata dannosa o addirittura inquinata, vi era pur sempre il processo a “rimediare”, nei limiti del possibile, agli eventuali errori commessi.
Oggi, invece, il processo non c’è più o, quanto meno, la sua portata di applicazione si è molto ridotta. Ne segue che un’attività di consulenza mal fatta o compiuta in modo deontologicamente non corretto è priva di rimedio e di verifica. Ma proprio per questo motivo, tale forma di attività richiede di essere vigilata.
Il discorso che ho sin qui sviluppato costituisce la motivazione della proposta che, a mio modo di vedere, l’Avvocatura intera e quella amministrativistica in particolare dovrebbe avanzare.
Già in passato vi sono state iniziative in tal senso ed esse sono state avanzate anche in occasione dell’approvazione della legge professionale forense del 2012.
Detta legge è recente, ma è irrimediabilmente datata, perché essa è concentrata su una tipologia di attività (quella processuale) che già nel 2012 stava assottigliandosi e che, cinque anni dopo, si è drasticamente avvilita.
Se, dunque, la proposta che vado a formulare non ebbe in passato buon esito, va anche riconosciuto che, allora, i presupposti storici e sociali erano ben diversi da quelli attuali.
Va ammesso, altresì, che sia ragioni di tutela della categoria forense sia, soprattutto, della clientela suggeriscono che ormai è diventato necessario stabilire, con legge formale, che l’attività di consulenza giuridica e di assistenza stragiudiziale sia riservata agli iscritti agli ordini forensi.
Evidenti ragioni di contiguità – per preparazione professionale, per assunzione di responsabilità e per rispetto dei doveri deontologici – suggeriscono altresì che l’attività di consulenza giuridica sia estesa agli iscritti ai Consigli notarili, mentre, per il carattere imparziale della figura del notaio, sembra opportuno che a questi stessi non possano essere riconosciute competenze nello svolgimento di attività di composizione stragiudiziale delle controversie.
L’idea che mi permetto qui di sostenere si concilia anche con le recenti novità che hanno portato all’ingresso delle società di capitali nella titolarità degli studi forensi.
Queste società – e i loro soci che siano privi di titolo professionale – potranno pur operare (esattamente come oggi operano le società di consulenza interamente non professionali). Tuttavia, l’attività di consulenza dovrà essere necessariamente assunta in proprio dal socio o dal collaboratore che siano avvocati, senza che analoghe attività possano essere prestate da diverse strutture societarie, prive, al proprio interno, di collaboratori professionali in tal modo qualificati.
Senza dubbio la proposta potrà essere perfezionata, nel momento in cui essa si dovesse tradurre in un testo normativo.
In quell’occasione potranno, perciò, essere fatte salve alcune competenze proprie di diversi professionisti (ad esempio quanto all’assistenza giudiziale davanti alle Commissioni tributarie e alla relativa attività di consulenza giuridica o quanto all’assistenza attualmente svolta dai consulenti del lavoro). Essendo, tuttavia, consapevoli che tali riconoscimenti debbono intendersi derogatori e volti a salvaguardare esclusivamente posizioni ormai acquisite e perciò, tendenzialmente, immutabili. Essendo, altresì, consapevoli che non vi è alcuna ragione sostanziale perché ciò sia riconosciuto.
Chiedo ai Colleghi – e in particolare a quelli che hanno la responsabilità di rappresentare il Foro davanti alle istituzioni – di valutare la cosa e, se la condividono, di sostenerla.
Francesco Volpe