Non ho potuto essere presente alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, davanti al T.A.R. Veneto, essendo impegnato in altre occasioni istituzionali.
Mi è molto dispiaciuto, perciò, non avere ascoltato con le mie orecchie il discorso, bello ed elevato, di chi rappresenta il Foro amministrativistico veneto.
Ritengo che l’intervento, poi diffuso, di Stefano Bigolaro sia stato espressione di una elevatissima civiltà giuridica e che tutti, tra quelli che hanno cuore la lealtà dei rapporti umani e del vivere sociale, lo abbiano apprezzato.
Mi è stato riferito, però, che un rappresentante di un’alta istituzione pubblica locale, intervenendo alla cerimonia, abbia invocato auspici diversi.
Più o meno, se bene mi è stata riportata la cosa, si sarebbe suggerito che chi propone infondatamente ricorsi contro la pubblica amministrazione debba uscire dal giudizio “con le ossa rotte”.
Ecco, pur da osservatore assente, non posso non cogliere il contrasto tra i due interventi: quello del presidente Bigolaro e quello dell’amministratore pubblico.
Personalmente, reputo di gran lunga preferibile il primo, così come reputo il secondo del tutto inadatto alla civiltà giuridica che con fatica abbiamo raggiunto in due secoli di esistenza del diritto amministrativo.
Il cittadino non deve temere di presentare causa al giudice dei rapporti con l’amministrazione.
Le amministrazioni, al contrario, debbono accettare di essere sottoposte a giudizio.
Anche quando, in buona fede, pretendono di avere ragione e di essere nel giusto.
Infatti, le amministrazioni non debbono perdere di vista il loro scopo essenziale.
Gli enti pubblici non esistono per se stessi; non traggono le ragioni del loro esistere da sé.
Una regione, una provincia, un comune non debbono necessariamente esistere, quasi fossero entità sovrumane e ontologicamente indispensabili.
Le amministrazioni, invece, esistono solo perché a loro sono imposte delle funzioni e le funzioni, a loro volta, sono scopi dettati dall’esterno (solitamente dalla legge, tanto più se parliamo di enti autonomi) e il cui perseguimento è doveroso.
In altri termini, non potrebbe esistere nessun ente pubblico, se non vi fosse alcuna funzione a esso riferita.
Tutte le funzioni, infine, sono, direttamente o indirettamente, collegate al bene dei cittadini: intesi, questi ultimi, sia nel loro complesso sia come individualità.
Si tratta, peraltro, di quegli stessi cittadini che poi promuovono ricorso, per verificare, in definitiva, se la funzione sia stata bene servita o no.
Il giudizio, dunque, assolve anche ad uno scopo di controllo sull’ente pubblico: Guicciardi, a suo tempo, lo aveva ben spiegato.
Il giudizio serve anche a verificare se l’ente pubblico persegua bene le sue funzioni e, se, quindi, l’ente abbia ragione di esistere o necessiti, in certi casi, di essere riformato o addirittura di essere soppresso perché inutile.
Perciò, un ente che rifiuti il controllo giurisdizionale e che, anzi, si auspichi che chi sollecita il controllo venga maltrattato è un ente che pretende di astrarsi dal suo compito di servire il cittadino.
È un ente che pretende di affermare la sua esistenza in sé e per sé, senza tenere conto delle vere ragioni che, invece, giustificano il suo esistere.
I greci classici vedrebbero in tutto ciò una palese manifestazione di hybris.
Quell’ente diventa così qualcos’altro; esso non è più “pubblico” e non svolge più una funzione servente di chi è titolare della sovranità per volontà della Costituzione e per volontà, prima ancora, dello spirito che ha ispirato la Costituzione stessa.
Personalmente – è la mia opinione, sia ben chiaro – trovo fortemente criticabili quelle espressioni sulle “ossa rotte”, che mi auguro non vere.
Reputo che le stesse possano essere comprese solo alla stregua di parole dal sen fuggite, auspicandomi che chi le ha pronunciate abbia la sensibilità di rettificarle e, se avvertito, di ritrattarle, per il bene dei cittadini innanzitutto, e dello stesso ente che rappresenta.
Francesco Volpe