C’è un evidente rapporto di continuità tra il nuovo e il vecchio sito: riflettere e scrivere sul nostro lavoro e sulle nostre esperienze è il comune denominatore.
A testimoniare questa continuità, ripubblichiamo – in forma anastatica – l’articolo probabilmente più “cliccato” del vecchio sito.
Articolo che mantiene, e anzi rafforza nel tempo, attualità di contenuti e vivezza di prospettiva.
MO’ ‘IE FACCIO ER CUCCHIAIO
lunedì 28 gennaio 2008
Tutti quelli che hanno giocato a calcio sanno che, quando si tira un rigore, il portiere deve buttarsi da una parte o dall’altra della porta. A destra o a sinistra, non importa, perché è difficile prevedere dove andrà il pallone. Ma il portiere deve buttarsi, perché, in questo modo, avrà il 50 per cento delle possibilità di indovinare la direzione del pallone. Che non è poco.
Ciò comporta, tuttavia, che il portiere non stia mai al centro, quando si batte il rigore. Perciò, se il rigorista tira al centro, egli ha quasi il 100 per cento delle possibilità di evitare il portiere, che nel frattempo si è spostato.
Ad esempio, Agostino Di Bartolomei batteva i rigori al centro. Ma con lui i portieri avevano poco da recriminare, anche se tutti sapevano che li tirava così. Il fatto è che il vecchio capitano della Roma tirava delle lasagne tanto forti che il portiere sperava di evitare la palla, e non di intercettarla. Che facesse pure gol! ma almeno uno si salvava il naso.
Non altrettanto amato è, invece, Francesco Totti, quando tira i rigori. Perché il suo tiro centrale è un pallonetto liftato che si insacca sotto la traversa: il cosiddetto “cucchiaio”. I portieri non lo apprezzano perché, per parare il rigore, basterebbe starsene fermi in mezzo alla porta ed alzare le mani, tanto la palla è debole. Ma loro si devono buttare a destra o a sinistra, perché la regola a cui deve attenersi il portiere è quella.
Essi si sentono irrisi, quando Totti, che conosce anche lui la regola, tira piano al centro. È come se l’attaccante facesse una specie di “finta” e il gioco del calcio vieta a chi tira il rigore di fintare; la debolezza del tiro, poi, aggiunge una inutile beffa.
Perché dico tutto questo? Perché davanti ad un certo T.A.R. e in una certa causa, ho perso una sospensiva. Nulla di strano, diranno i Colleghi. Capita tante volte a tutti.
Ma il fatto è che, in quella causa, le controparti, come era loro diritto, mi avevano sollevato delle eccezioni in rito. Non le ritenevo preoccupanti, per il vero, e mi accingevo a replicare in udienza.
In udienza, però, non vi fu modo di parlare del rito. Il Presidente del Collegio orientò la discussione su una questione di merito e non vi fu occasione di allontanarsi da quella specifica questione di merito. Perché quando si tentava di farlo, vi si veniva ricondotti. Il tutto per oltre un quarto d’ora d’udienza.
Come avrete capito, la sospensiva è stata respinta sulla base di quelle eccezioni di rito.
Ecco che mi sono sentito come il portiere davanti a Totti. Perché mai mi è stato fatto discutere su una questione che non poteva avere alcun rilievo, visto che il Collegio riteneva tranchant la preliminare questione di rito? Perché mi è stato impedito di allontanarmi da quella questione di merito, se il Collegio riteneva determinante la questione di rito?
Non voglio parlare di mala fede, sia chiaro. Probabilmente, il Collegio ha valorizzato la questione di rito dopo la discussione.
Tuttavia, è diffusa l’opinione che noi Avvocati si sia, per natura, temperamento e mestiere, persone poco franche. Il che, qualche volta, è vero.
Altre volte siamo accusati di scrivere troppo; il che infastidisce il Giudice che è costretto a leggere tante carte che trattano di questioni inutili.
Ebbene, io non voglio giustificare gli Avvocati, quando non sono franchi, né voglio sminuire l’elefantiasi dei nostri atti.
Tuttavia, la franchezza degli Avvocati va guadagnata sul campo.
Qualche volta, poi, i Giudici dovrebbero riconoscere che, se noi Avvocati scriviamo troppo, ciò è perché non ci sentiamo tranquilli nel dare per scontate questioni che invece dovremmo considerare inutili, in quanto di implicita e concorde soluzione.
Insomma, solo se Giudici e Avvocati si guarderanno finalmente negli occhi, abbandonando i reciproci paludamenti e riconoscendo ciascuno sia i propri meriti sia, con umiltà, i propri difetti, sarà possibile superare quel senso di sfiducia generale che il cittadino prova nei confronti di entrambe le categorie.
Francesco Volpe