Una delle parole più frequentemente usate dall’amministrativista è “merito”.
Si usa, ad esempio, per dire che una certa questione è sottratta al sindacato del giudice: “Questa è cosa che appartiene al merito amministrativo”.
Ma la troviamo applicata anche al processo: “Udienza di merito”, per contrapporla a quelle in Camera di consiglio; “sentenza di merito”, per dire che la sentenza risponde alla domanda del ricorrente e non si ferma ad esaminare il “rito”.
Già! ma da dove deriva la parola “merito”?
È piuttosto facile individuarne l’origine, almeno quella latina. Merito deriva da mereor.
Risalire oltre, invece, è più difficile, ma pare che la radice indoeuropea sia la stessa di memor, cioè di “memoria”: cosa isolata da un insieme, per essere trattenuta. Chi dice, perciò, di avere una memoria “selettiva” si ripete, perché la memoria è selettiva per definizione.
Qualcuno, poi, ha ipotizzato che anche mora (sosta, fermata; cosicché se ti metto in mora ti blocco lì dove sei e non puoi svicolare più) sia vocabolo imparentato con la radice di mereor, benché la tesi sia definita da altri avventurosa e azzardata.
Questa minuscola notazione permette di capire un po’ di più cosa siano il “merito” dell’autorità amministrativa e il “merito” di una causa.
Mereor, infatti, vuol dire trattenere il proprio guadagno e solo in senso traslato significa “me lo sono meritato”, nel senso che diamo oggi al termine.
Sul significato moderno di “merito”, anzi, vale la pena soffermarsi un po’, a mo’ di divagazione. Se diciamo che una cosa ce la siamo procurata “per nostro merito”, la parola sta a indicare quell’insieme di doti, laboriosità, diligenza, cura e perseveranza, che ci ha permesso di ottenere quella stessa cosa.
Il significato di “merito”, a tal fine, è stato, in altre parole, arretrato dall’effetto alla causa e sottintende il desiderio di “giustificare” un “arricchimento” che ci è capitato.
Ecco, su questa impostazione psicologica (e, poi, sociologica) ci sarebbe da riflettere. Perché sentiamo la spinta a giustificare di fronte a noi e agli altri ciò che ci è andato bene? Perché avvertiamo una colpa nell’essere felici?
Ma torniamo alle nostre cose. Dire che il merito amministrativo è riservato significa dire, secondo il senso originario della parola, che quel che l’Amministrazione guadagna o pensa di guadagnare da una certa operazione non può essere valutato da altri che non sia l’Amministrazione stessa: solo lei sa quale sia il suo “interesse” (cioè che inter–est, “che sta in mezzo” ad altre cose e che ne va estratto, perché è quel che serve) e ciò che, dunque, le va bene. Se ci pensiamo, il significato è l’esatto contrario dei concetti di “trasparenza” e di “casa di vetro” che oggi vanno tanto di moda.
Diversamente, il merito della sentenza è “la parte” del tutto che il giudice rende a chi ha ragione, l’“utilità riconosciuta”, perché assegnata dal giudice stesso. In altri termini, si tratta del “suum cuique tribuere” di cui parlava Ulpiano.
Si parla, in effetti, anche di “parte” processuale, che a sua volta deriva da pario: generare nel senso di produrre. La parte, dunque, è colei che ambisce ad un risultato, ad un “prodotto”, cioè, appunto, al “merito”.
Non per niente, si dice “di parte” chi rende un’opinione inaffidabile, essendo interessato al risultato che si va a dare ad un problema. Allo stesso modo, se il processo è un gioco di “parti”, allora esso è anche una “partita” e chi sa cosa ne sortirà, perché a “partire” si lascia sempre qualcosa dietro di sé e perché, in definitiva, habent sua sidera lites, esattamente come il gioco d’azzardo.
Se, poi, la sentenza riconosce un “parto” e separa un “merito” che prima non c’era, nessuno dubiterà più che essa sia per definizione sempre costitutiva (e tale non è appunto la sentenza del giudice amministrativo, non fosse altro che per i “nuovi” effetti conformativi che ne derivano?).
Secondo questo significato, infine, “merito” si contrappone a “rito”, la cui origine è totalmente diversa ed è comune, invece, con quella del greco rythmos, il quale indica ciò che è ordinato e regolato, perché “messo in fila” e numerato. Se pensiamo che un processo sia “aritmico”, stiamo dunque esprimendo un giudizio piuttosto severo sul giudice e sugli avvocati.
Del resto, il processo, su cui si concentrano le sentenze di mero rito, è (o dovrebbe essere) la quintessenza dell’ordine (anche se tutto il diritto è, in realtà, ordine, cioè “ordinamento”, da ordior – “cominciare a parlare” e quindi “mettere in fila le parole” – ed è anche “organizzazione”, tratto da organon , “strumento costruito” – ergon – per uno scopo, come è giusto che sia lo ius in civitatem positum).
È anche vero, però, che una sentenza in rito do poca soddisfazione e “produce poco” (paucum parit – pau()perit): chi si affanna per un tale risultato è, così, una “parte” che si fa “povera” e che ingrasserà solo gli avvocati.
Si può aggiungere, infine, che “merito”, in senso processuale, potrebbe essere inteso anche come cosa trattenuta, cioè “ricordata” e, a tal proposito, si potrebbe forse cogliervi un accenno al concetto di cosa giudicata.
Ma resta anche un’ultima notazione.
Da mereor derivano anche altri termini. Ad esempio, se è incerto (benché attestato) che ne derivino le parole “merce” (merx), “mercato” (mercatus) e “Mercurio”, è consolidato che ne deriverebbe, invece, meretrix, che è colei che, appunto, si dà ad altri in cambio di un’utilità.
In questo senso, meretrices è la traduzione quasi letterale del greco pornai: coloro che commerciano con l’estero (e al passivo si vendono: pernemi), essendo allora quasi tutte di origine straniera, in quanto ex schiave di guerra.
Ma, certo, questo non vuol sottintendere che le valutazioni amministrative siano fatte oggetto di “mercimonio” o, peggio ancora, che i giudici esercitino un turpe “commercio”, mentre nulla ci sarebbe da eccepire se qualcuno sostenesse che anche le prostitute hanno (diritto a)i loro “meriti”.
Francesco Volpe