Giovedì 30 aprile 2020. Ricevo la notifica a mezzo posta elettronica certificata di un ricorso al TAR, ricorso munito di istanza di sospensione e di richiesta di assunzione di misure cautelari presidenziali. Si tratta di una gara d’appalto.
Quasi contemporaneamente ricevo una nota, sempre tramite pec, con la quale il Presidente del TAR chiede a tutte le parti la disponibilità – il successivo 2 maggio – per un’udienza informale in videoconferenza. Il che è in effetti avvenuto, addirittura previo invio da parte della Cancelleria di un messaggio, recante un semplice e diretto collegamento all’udienza. Con un clic intuitivo, s’è aperta l’udienza. Nessuno si è mosso dallo studio o da casa; tutti erano collegati e potevano discutere.
Ora, è vero che l’ultimo periodo dell’art. 56, comma 2, del c.p.a. prevede la facoltà in capo al Presidente del Collegio di sentire fuori udienza ed informalmente anche separatamente le parti, che si siano rese a ciò disponibili, quindi con forma e mezzi liberi, ma l’esperienza – per me è stata la prima – si presta forse ad alcune considerazioni generali sull’udienza da remoto.
Oggi più che mai. L’art. 4 del D.L. 30 aprile 2020, n. 28 prevede la possibilità di celebrare udienze (cautelari e di merito) da remoto nel periodo emergenziale intercorrente tra il 30 maggio ed il 31 luglio di quest’anno.
L’esperienza personale è stata ampiamente positiva. Eccezion fatta per il temporaneo scollegamento del ricorrente – peraltro subito ripristinato – l’udienza da remoto si è svolta egregiamente. L’impressione è stata, paradossalmente, di una maggiore vicinanza fisica tra le parti, tutte a portata di sguardo: nella realtà non si ha la visione frontale delle controparti, ma solo del Collegio (sovente anche lontano); sullo schermo, invece, il Giudice e gli Avvocati delle controparti si possono guardare tutti negli occhi, da distanza virtualmente ravvicinata, pochi essendo i centimetri, che separano la telecamera del computer dal viso di chi viene ripreso.
L’audio, inoltre, non ha dimostrato pecche di sorta, essendosi rivelato pienamente soddisfacente, nonostante non tutti i partecipanti avessero a disposizione un collegamento mediante fibra ottica, ma una “semplice” ADSL.
Ma, al di là delle considerazioni solo apparentemente tecniche, l’esperienza mi ha fatto riflettere.
Ho imparato che un approccio laico conduce a centrare l’obiettivo sostanziale: non importa come, con quale ritualità e con quale mezzo, quel che conta è la possibilità del confronto tra le parti e tra di esse ed il Giudice.
Ho imparato che la quotidiana ripetizione di consolidati rituali non c’entra nulla con l’effettività della tutela giurisdizionale: Giudici ed Avvocati indossano la toga sempre, anche in videoconferenza e non solo idealmente.
Ho imparato che unicamente sperimentando ci si può accorgere dell’utilità del mezzo utilizzato per la sperimentazione. Non solo in piena pandemia. Occorre guardare anche oltre.
Ho imparato che il nostro processo, che è un processo di legittimità sin dal primo grado di giudizio e che raramente necessita di un’istruttoria propriamente detta, in linea generale non può prescindere dalla discussione orale, ma che essa può essere garantita anche con mezzi alternativi rispetto all’udienza in presenza.
Ho imparato che le difficoltà del novum non debbono farci rifugiare nel notum: certo i problemi dell’udienza da remoto vi sono, specie rispetto all’udienza cautelare. Come assicurare la presenza delle sole parti? Come garantire l’extra omnes? Dubbi leciti, quesiti non banali, ma forse superabili responsabilizzando tutte le parti del processo.
Ho imparato che la sperimentazione, proposta dal legislatore ed imposta dagli eventi, merita di essere vissuta fino in fondo: solo così potremmo trarre l’esperienza “sul campo” e valutare con cognizione di causa.
Ho imparato ad andar cauto nel formulare giudizi, che, in assenza di necessaria esperienza, possono tradursi in pregiudizi.
Insomma, confesso, mi sono sentito un po’ come Renzo nei Promessi Sposi; con la differenza che io non sono affatto certo di aver inteso davvero “il sugo di tutta la storia”. Sono però convinto che meriti provare. Non solo perché alternativa non c’è e perché è comunque molto meglio guardare in faccia l’avversario e l’arbitro, potendo con essi discutere, ma anche perché non è affatto detto che l’esperienza, cui oggi siamo costretti, non possa rivelarsi utile anche per il futuro, a pandemia cessata.
Alessandro Veronese