Il titolo della tavola rotonda evoca l’incerto confine tra giurisdizione civile ed amministrativa. Su questo confine si sono combattute molte battaglie, sono state talvolta anche stipulate importanti tregue, ma un rilevante grado d’incertezza vi è pur sempre connaturato e fatalmente permane.

L’incertezza nasce, già all’origine, dalla difficoltà di distinguere con sufficiente precisione le due figure – diritto soggettivo ed interesse legittimo – su cui si fonda in via generale il riparto di giurisdizione. Una difficoltà che è generata da una certa qual fluidità della stessa nozione di interesse legittimo, ma che si è andata poi accrescendo man mano che l’agire della pubblica amministrazione si è sempre sovente più spostato sul piano privatistico e che, per realizzare i propri obiettivi, la medesima pubblica amministrazione ha sempre più spesso fatto ricorso a strumenti di stampo prettamente contrattuale.

Tali strumenti, storicamente forgiati nell’ambito del diritto privato, pur quando siano inseriti in un contesto pubblicistico e perciò soggetti dal legislatore ad un regime giuridico speciale, conservano sempre alcune caratteristiche proprie dell’impronta privatistica originaria. Ciò fa sì che la tradizionale tendenza del diritto civile a porsi come modello di diritto comune si avverta fortemente nell’attività negoziale della pubblica amministrazione anche quando questa è finalizzata alla realizzazione di interessi generali.

Tuttavia la presenza del contraente pubblico quasi mai risulta del tutto neutra, dal punto di vista giuridico, anche se si inserisce in un tradizionale schema negoziale privatistico. E questo sia per il diverso modo in cui si atteggia l’autonomia del contraente pubblico nella scelta dell’interesse da perseguire mediante il contratto, sia per l’esigenza di maggiore procedimentalizzazione che inevitabilmente caratterizza l’agire contrattuale della pubblica amministrazione.

Tutto ciò non è privo di difficoltà applicative quando si tratta di valutare le conseguenze che la violazione di quelle regole procedurali provoca sulla validità ed efficacia del contratto stipulato dalla pubblica amministrazione, e tanto meno lo è dal punto di vista del riparto di giurisdizione.

Vengono qui a confronto la tradizionale funzione di controllo della legalità nell’esercizio dei poteri autoritativi della pubblica amministrazione, che è propria del giudice amministrativo, e quella di verifica del rispetto delle regole genetiche e funzionali del contratto, che è tipica invece del giudice ordinario.

L’appalto pubblico non è certo il solo terreno sul quale queste difficoltà si manifestano, pur essendo forse uno dei più emblematici. Ma analoghi problemi si pongono anche in molti altri campi, quale ad esempio quello delle c.d. società pubbliche, ove l’utilizzo da parte dello Stato o di un altro ente pubblico dello strumento societario, disciplinato dal diritto provato, ha creato aree di non facile sovrapposizione non solo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria – in particolare per quel che riguarda le controversie sulla nomina e revoca degli organi sociali designati dall’ente pubblico – ma anche (e soprattutto) tra quest’ultima e la giurisdizione contabile. Ed è superfluo qui richiamare l’annoso dibattito sui limiti entro cui la Corte dei conti ha competenza ad esercitare azioni di responsabilità nei confronti degli organi delle società pubbliche (in specie quando si tratta di società in house), non del tutto sopito neppure dopo l’emanazione del testo unico sulle società a partecipazione pubblica del 2016.

Le difficoltà cui ho appena accennato sono poi accentuate, e si traducono non di rado in un inopportuno moltiplicarsi di cause promosse dinanzi a giudici diversi benché sostanzialmente riguardino una medesima vertenza, a causa del consolidato principio (talvolta peraltro nella prassi disatteso) secondo cui la connessione oggettiva di cause può comportare uno spostamento di competenza tra giudici appartenenti al medesimo plesso giurisdizionale ma non può invece spostare l’ambito della giurisdizione.

Il legislatore ha cercato di reagire a questi inconvenienti ampliando a dismisura le ipotesi di giurisdizione esclusiva, che la Costituzione aveva concepito proprio per situazioni nelle quali l’intreccio tra diritti soggettivi ed interessi legittimi è pressoché inestricabile, pur sempre però configurandole come limitate ed eccezionali.

Ciò ha prodotto sulla giurisprudenza un duplice effetto: ha accresciuto l’incertezza circa i confini della giurisdizione esclusiva, che non dovrebbe comunque poter attrarre nella giurisdizione amministrativa controversie nelle quali sia del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione come autorità (si veda Corte cost. 204/2004); ha, nondimeno, comportato un’estesa area di sovrapposizione giurisprudenziale in ambiti una volta invece ben distintamente coltivati dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile, portando all’esame del giudice amministrativo questioni – valga per tutti l’esempio del risarcimento del danno – che sono da sempre terreno di coltura della giurisdizione ordinaria.

Sotto il primo profilo è appena il caso di ricordare come, nonostante l’ampia dizione dell’art. 133 c.p.a. in tema di controversie relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, la giurisprudenza distingua tra fase prodromica alla stipulazione del contrato, riservata alla giurisdizione amministrativa, e fase esecutiva del medesimo contratto che chiama invece in causa quella ordinaria. Non senza però molte complicazioni, quando i vizi della fase prodromica si riflettono sulla validità del contratto stipulato e quando si sia in presenza di atti di autotutela della pubblica amministrazione formalmente riferiti fase prodromica ma tali da investire anche la sorte del contratto “a valle”.

Non posso qui approfondire tali profili ed i molti altri in cui il riparto di giurisdizione risulta problematico, ma mi preme ricordare che l’enorme carico delle questioni di giurisdizione che grava sulle sezioni unite della Corte di cassazione testimonia in modo eloquente di quanto gli attuali criteri di riparto siano tuttora incerti e produttivi di un defatigante contenzioso contribuendo spesso a quella eccessiva durata delle controversie civili che costituisce una delle principali ragioni d’inefficienza del nostro sistema giuridico.

Sotto il secondo profilo è evidente il rischio di dar vita ad una sorta di nomofilachia concorrente in settori dell’ordinamento sui quali intervengono contemporaneamente sia il giudice amministrativo sia quello ordinario, in assenza di un vertice giurisdizionale comune. Ciò ha indotto talvolta la Cassazione a dare una lettura più ampia dei “motivi inerenti alla giurisdizione”, che segnano il limite costituzionale entro cui alla medesima Cassazione è consentito sindacare la legittimità delle decisioni dei giudici amministrativi e contabili. Ed allora ci si è spinti sino ad affermare che rientrerebbe nel sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione, rimesso alla Suprema corte dall’art. 111, comma 8, della Costituzione, anche l’operazione consistente nell’interpretare la norma attributiva di tutela per verificare se il giudice amministrativo la eroghi concretamente ed eserciti la giurisdizione rispettandone il contenuto essenziale: e si è parlato di un’accezione dinamica (o funzionale) del concetto di giurisdizione, contrapposta alla precedente accezione statica, che implicava un sindacato della Cassazione limitato al riparto di giurisdizione in senso stretto, ossia unicamente circoscritto alla veridica dell’eventuale sconfinamento dell’una giurisdizione in terreni riservati all’altra o, eventualmente, del tutto esclusi dalla competenza giurisdizionale.

Al di là dell’enunciazione verbale di tali concetti, tuttavia, le Sezioni unite della Cassazione hanno per lo più continuato a circoscrivere il proprio sindacato alle ipotesi di sconfinamento del giudice amministrativo dai limiti esterni della giurisdizione, escludendo di poter censurare eventuali violazioni dei limiti interni dovuti a qualsivoglia preteso errore in procedendo o in giudicando.

L’unico ambito nel quale la Cassazione si è spinta in taluni casi cautamente più in là è stato quello dell’insanabile e manifesto contrasto della decisione del giudice amministrativo con principi di diritto europeo enunciati dalla Corte di Giustizia. Anche in questo ambito, peraltro, si è avuto cura di limitare il sindacato delle Sezioni unite della Suprema corte al solo caso in cui vi sia un rifiuto di tutela da parte del giudice amministrativo, consistente nell’ingiustificato diniego di esame nel merito della domanda, dovuto ad un “radicale stravolgimento” delle regole di diritto, ed in specie di quelle aventi portata sovranazionale europea (cfr. Sez. un. 31226/2017).

Poteva questo forse costituire un ragionevole punto di equilibrio tra esigenze e sensibilità diverse, posto che anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato aveva avuto occasione di affermare che “l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, secondo quanto risultante da una pronuncia della Corte di giustizia successivamente intervenuta dà luogo alla violazione di un limite esterno della giurisdizione” (Adunanza plenaria 9 giugno 2016, n. 11, punto 58).

Ma così non è stato. A brevissima distanza di tempo si è avuto infatti l’intervento della Corte costituzionale che, con la sentenza n.6 del 2018, ha totalmente riaperto la questione rifiutando espressamente ogni eventuale ampliamento del sindacato della Suprema corte “ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”.

Ma era difficile immaginare che si potesse così radicalmente far piazza pulita di un dibattito ormai quasi ventennale e riportare le cose semplicemente al punto di partenza. Ed allora la disputa si è riaccesa ed ha condotto alla recente formulazione da parte delle Sezioni unite della Cassazione (ordinanza n. 19598 del 2020) di due quesiti interpretativi rivolti alla Corte di Lussemburgo, che è stata perciò chiamata a dirimere un nodo che le corti nazionali non sembrano in grado di sciogliere.

Il primo quesito tende a far dichiarare contrario al diritto europeo l’indirizzo giurisprudenziale che nega possa qualificarsi come “inerente alla giurisdizione” una questione attinente alla violazione da parte del Consiglio di Stato di principi del diritto europeo e che perciò inibisce in tal caso la possibilità di ricorrere per cassazione. Il secondo quesito pone un analogo problema con specifico riguardo al mancato esercizio, da parte del Consiglio di Stato, del rinvio pregiudiziale alla Corte europea per l’interpretazione di norme comunitarie. Va peraltro notato che una successiva, recentissima pronuncia delle medesime Sezioni unite – l’ordinanza del 30 ottobre 2020, n. 24107 – ha invece nuovamente ribadito la costante giurisprudenza secondo la quale il mancato rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo non configura una questione attinente allo sconfinamento della giurisdizione, salvo che essa si sia risolta in un’interpretazione della normativa europea in palese contrasto con quella resa dalla Corte di giustizia. La decisione del Consiglio di Stato di non rimettere la questione ha infatti comunque come suo presupposto la giurisdizione del giudice interno e l’attivazione del rimedio del rinvio pregiudiziale non implica mai la cessione del potere giurisdizionale, né configura un superamento della giurisdizione della Corte di giustizia. E si è aggiunto, in questa più recente ordinanza, che il quadro non muta per effetto dalla recente rimessione alla Corte di giustizia di cui all’ordinanza n. 19598 del 2020, posto che nel caso in esame la decisione di non dare corso al rinvio pregiudiziale era stata motivata dal Consiglio di Stato (ma mi permetto di osservare che non è chiaro come la presenza o il difetto di un’espressa motivazione sul punto possa far sì che il mancato rinvio pregiudiziale assurga o meno al rango di “questione inerente alla giurisdizione” e valga perciò a schiudere le porte del ricorso per cassazione avverso la pronuncia del giudice amministrativo).

Tornando all’ordinanza n. 19598 del 2020, è stato già da più parti osservato che questa è la prima volta che un giudice superiore si rivolge ad una corte internazionale per risolvere un contrasto con un altro giudice superiore. Ed è la prima volta che si chiede ad un giudice sovranazionale saggiare una disposizione della Carta costituzionale nazionale alla luce del diritto europeo.

E’ difficile dire se davvero vi sia un’incompatibilità dell’impianto normativo interno, come interpretato dalla Corte costituzionale, con il principio di effettività della tutela di diritti riconosciuti dall’ordinamento dell’Unione europea e con gli standard di tutela pretesi dal diritto europeo; oppure se la tutela possa dirsi effettiva, in quanto erogata a seguito di due gradi di giudizio dinanzi al giudice amministrativo, a prescindere dalla possibilità di proporre poi anche ricorso per cassazione; ed è difficile prevedere se la Corte di giustizia europea riterrà che questa scelta esuli dall’ambito dell’autonoma competenza di ciascun legislatore nazionale in campo processuale.

Non resta che da attendere il responso dei giudici di Lussemburgo. Ma se essi dovessero decidere di assecondare il suggerimento insito nell’ordinanza di rinvio, delle due l’una: o si dovrebbe pervenire, da parte della Corte di Giustizia, a formulare un’interpretazione del comma 8° dell’art. 111 della Costituzione diversa da quella propugnata dalla Corte costituzionale italiana; oppure, qualora l’interpretazione dell’espressione “motivi inerenti alla giurisdizione” fornita dalla Corte costituzionale appaia corretta, si dovrebbe addirittura prospettare un contrasto insanabile di quella norma della Costituzione (nonché delle disposizioni del c.p.a. e del codice del processo contabile che la rispecchiano) col dovere costituzionale di adeguamento della normativa nazionale a quella europea. Il che probabilmente imporrebbe una nuova rimessione alla Corte costituzionale per dirimere tale contrasto, per ciò stesso evocando lo spettro dei cosiddetti controlimiti.

Insomma, la faccenda si complica, e non è certo una buona notizia per i cittadini che si rivolgono alla giustizia per ottenere tutela dei loro diritti e legittimi interessi e che, prima di vedersi dare torto o ragione nel merito, debbono assistere e defatiganti battaglie per sapere quale è il giudice che finalmente dovrà dare loro torto o ragione.

Personalmente resto convinto che, come già in molte occasioni mi è capitato di affermare, la sola soluzione davvero soddisfacente consisterebbe nel ripristino dell’unità della giurisdizione (con opportune aree di specializzazione al suo interno). Sono però ben consapevole delle forti opposizioni che una simile proposta incontra in molti settori della comunità giuridica e delle enormi difficoltà che oggi, nell’attuale contesto politico, rendono quanto mai impervio il sentiero di una modifica costituzionale di questo tenore.

In attesa di tempi migliori (se mai ne verranno), occorrerebbe però almeno recuperare uno spirito di leale collaborazione tra le diverse istituzioni giurisdizionali nell’ottica di servizio che dovrebbe ispirare chiunque è chiamato a rendere giustizia; uno spirito di leale collaborazione che le recenti prese di posizione della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Cassazione rischiano invece di appannare.

Il Memorandum firmato dinanzi al Capo dello Stato dai vertici delle diverse giurisdizioni nazionali il 15 maggio 2017, pur se discutibile in talune proposte, esprimeva bene l’esigenza di tener vivo questo dialogo, fatto anche di scambi di relazioni di studio redatte in vista delle più importanti decisioni, di partecipazione comune di giudici ordinari ed amministrativi a seminari e convegni e di altre simili forme di interlocuzione. È da lì che si dovrebbe provare a ripartire, evitando il più possibile di rinnovare l’infausta tradizione della “guerra delle corti”.                            

Renato Rordorf    

 

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