Sommario: 1. I fatti di causa e la decisione del Consiglio di Stato. 2. Le principali questioni giuridiche affrontate dal giudice amministrativo. 3. Le raccomandazioni regionali come esempio di “regolazione flessibile”. Un problema di effettività della tutela. 4. L’irrinunciabilità del controllo giurisdizionale sugli atti dell’Amministrazione. Considerazioni conclusive.
1. La sentenza del Consiglio di Stato che si commenta[1] è stata pronunciata nel giudizio di appello promosso da una società del settore farmaceutico per ottenere, in riforma della sentenza di primo grado[2], l’annullamento dei provvedimenti con cui la Regione Veneto[3] aveva adottato “raccomandazioni” in ordine alla prescrizione di alcuni farmaci oncologici, tra cui quelli prodotti dalla società ricorrente.
Nell’ambito di un più ampio programma di razionalizzazione e contenimento della spesa sanitaria, l’Amministrazione regionale ha ritenuto necessario, tra l’altro, “uniformare i comportamenti prescrittivi” dei medici operanti nelle strutture sanitarie della Regione e a tal fine ha dettato una nuova disciplina per la costituzione e il funzionamento di speciali Commissioni Terapeutiche, organizzate su due livelli: locale (per le singole ASL) e regionale.
In particolare, alla Commissione Tecnica Regionale Farmaci (CTRF), è stato demandato il compito di «esprimere pareri o raccomandazioni su singoli farmaci o categorie terapeutiche».
Nell’esercizio di tale competenza, la Commissione regionale ha dunque distinto quattro livelli di raccomandazione, graduati da un giudizio pienamente positivo (“raccomandato”), con cui si ritiene il farmaco «utilizzabile nella maggioranza dei pazienti», ad uno totalmente negativo (“non raccomandato”) con cui «si sconsiglia l’utilizzo del farmaco», passando per giudizi intermedi (“moderatamente raccomandato” e “raccomandato in casi selezionati”[4]).
Merita precisare che la disciplina regionale in questione non ha previsto particolari conseguenze, ad es. di carattere sanzionatorio, per l’inosservanza di tali raccomandazioni di carattere generale adottate dalla CTRF, limitandosi a prevedere un monitoraggio semestrale per svolgere una verifica di rispondenza agli indicatori di uso.
In tale contesto, uno speciale Gruppo di lavoro istituito in seno alla CTRF ha approvato alcune raccomandazioni specificamente riferite alla prescrizione e utilizzo di quattro tipologie di farmaci oncologici. Due di questi vengono prodotti dalla società ricorrente; per determinate indicazioni cliniche, la Commissione regionale ha ritenuto che uno sia “moderatamente raccomandato”, l’altro “non raccomandato”.
La società, ritenendo che tali raccomandazioni fossero suscettibili di incidere negativamente sull’utilizzo e la diffusione dei farmaci da essa prodotti, ha adito il TAR Veneto per domandarne l’annullamento. Con sentenza succintamente motivata, il giudice amministrativo di primo grado ha però respinto il ricorso, ritenendo che «la raccomandazione impugnata, nella parte in cui considera come sconsigliabile o non raccomandato l’utilizzo di un farmaco di proprietà e produzione della ricorrente, non può essere letta se non come mera indicazione», e dunque, secondo il TAR, detta raccomandazione non può ritenersi vincolante per il singolo medico curante, a cui spetta in via esclusiva ogni scelta terapeutica in ordine ai farmaci da impiegare. Ancorché la breve sentenza del TAR non lo dichiari esplicitamente, se ne ricava che le raccomandazioni impugnate non possono ritenersi lesive della sfera giuridica soggettiva della società ricorrente.
La ricorrente ha dunque presentato appello dinanzi al Consiglio di Stato, il quale ha accolto le censure e, in riforma della sentenza del TAR, ha annullato le raccomandazioni impugnate. Dalla motivazione della sentenza di appello emerge un esplicito dissenso rispetto alle argomentazioni del giudice di primo grado su due punti cruciali della vicenda: la vincolatività o meno delle raccomandazioni e, conseguentemente, la loro attitudine a ledere la sfera giuridica soggettiva della società ricorrente.
Il Consiglio di Stato ha infatti ritenuto che: «Le raccomandazioni regionali qui impugnate, nel consigliare, entro un certo limite, o addirittura nello sconsigliare l’utilizzo di un certo farmaco, inevitabilmente incidono sulla sua erogazione da parte del Servizio Sanitario Nazionale […] Non vi è dubbio che la Regione […] abbia fissato, con le raccomandazioni in esame, obiettivi prescrittivi ben definiti, che non possono non incidere sul merito delle scelte dei medici prescrittori, che subiscono un forte, inevitabile, condizionamento dalle raccomandazioni, tese ad indirizzarli nella scelta del farmaco ritenuto più appropriato, in termini di efficacia terapeutica, ma anche meno costoso, in termini di spesa sanitaria. […] Risulta evidente che questa portata “orientativa” delle raccomandazioni in esame si riflette inevitabilmente sulla prescrizione del farmaco, condizionando la scelta del terapeuta, tanto più ove si consideri il monitoraggio, per l’attuazione delle raccomandazioni» (cfr. par. 7.7 e 7.8).
La sentenza in commento conclude dichiarando «la illegittimità delle raccomandazioni qui impugnate, nella parte in cui di fatto introducono limiti aggiuntivi e stringenti controlli circa l’impiego di alcune terapie farmacologiche […] condizionando la liberà prescrittiva del medico, con evidente lesione anche dei diritti dei pazienti […] chiara apparendo la lesività dei provvedimenti regionali nell’incidere comunque sull’utilizzo dei farmaci» (cfr. par. 8 e 9.7).
Nel suo nucleo centrale, la decisione in commento ha dunque stabilito che anche da un atto formalmente non vincolante possano derivare conseguenze giuridicamente rilevanti per i suoi destinatari diretti e, come nel caso di specie, persino indiretti, ciò che consente al soggetto che si assuma leso di invocare la tutela del giudice amministrativo e a questi di sindacarne la legittimità.
2. Le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza in commento sono diverse e rivestono carattere sia sostanziale che processuale.
Sotto il profilo strettamente processuale, il Consiglio di Stato ha respinto l’eccezione di inammissibilità formulata dalla Regione Veneto in relazione alla mancata notifica del ricorso ad almeno un soggetto controinteressato: nel caso di specie, il giudice amministrativo di appello non ha infatti ravvisato posizioni di controinteresse rispetto alla domanda di annullamento formulata dalla ricorrente, neanche in senso sostanziale. La questione, che per limiti di spazio non può essere approfondita in questa sede[5], merita comunque di essere attentamente considerata: la pronuncia sembra infatti negare che sussista simmetria di posizioni tra la società ricorrente – che lamenta una lesione della sua sfera giuridica soggettiva da parte dei provvedimenti impugnati – e le altre società operanti nel settore farmaceutico, le quali, sembra implicitamente ritenere il Consiglio di Stato, rispetto alla vicenda contenziosa non vantano una posizione giuridicamente qualificata ma soltanto un interesse di mero fatto.
La soluzione appare lineare e coerente con un consolidato orientamento giurisprudenziale[6]; tuttavia essa potrebbe far sorgere alcuni dubbi in punto di effettività del diritto di difesa, posto che nel caso di specie, come si vedrà in prosieguo, il giudice ha ritenuto di estendere la tutela in favore del soggetto che lamenta uno svantaggio di fatto causato dal provvedimento, ma non in favore del soggetto che dal medesimo provvedimento ritrae, sempre in via di fatto, un vantaggio.
Alcune rilevanti questioni di diritto sostanziale vengono poi affrontate dalla sentenza in commento, quali il problema della completezza dell’istruttoria procedimentale laddove sia necessario acquisire fatti di particolare complessità tecnica-scientifica e la correlata questione delle valutazioni tecnico-discrezionali; la questione della partecipazione al procedimento da parte di terze Amministrazioni, specie laddove si renda necessario acquisire parere tecnici; nonché la questione del riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di regime amministrativo del commercio dei medicinali.
Nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, a cui la sentenza in commento fa espresso richiamo, quest’ultimo tema è stato in effetti ampiamente affrontato e risolto nel senso dell’illegittimità dei provvedimenti regionali con cui sono stati stabiliti speciali limiti all’utilizzo e al rimborso di determinati farmaci, in difformità rispetto a quanto stabilito a livello nazionale dall’Agenzia Italiana del Farmaco, cui la legge riserva in via esclusiva ogni funzione in materia[7].
Delle questioni che emergono dalla sentenza in commento quella su cui però interessa maggiormente soffermarsi in questa sede attiene al regime degli effetti e all’impugnabilità di questi singolari atti con cui l’Amministrazione regionale “raccomanda”, più o meno intensamente, ovvero non raccomanda ai medici l’utilizzo di determinati farmaci. Si tratta infatti di una novità non solo rispetto ad analoghe vicende di cui la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di occuparsi negli ultimi anni[8], ma anche nel più ampio panorama dottrinale e giurisprudenziale relativo al regime di efficacia e all’impugnabilità di quegli atti negli ultimi tempi si suole ricondurre alla categoria della c.d. soft law.
Ridotta nei suoi termini essenziali, dunque, la questione può essere impostata come segue: ci si chiede se sia giustiziabile l’atto amministrativo che, pur non incidendo con effetti costitutivi, accertativi o dichiarativi sulla “realtà giuridica”, produce de facto, attraverso il condizionamento del comportamento dei destinatari dell’atto (nel caso di specie, i medici delle strutture sanitarie regionali), una modificazione della realtà materiale da cui scaturiscono conseguenze lesive per la sfera soggettiva di terzi soggetti (sempre con riferimento al caso concreto, la società farmaceutica ricorrente).
Si tratta, con ogni evidenza, di un tema di portata vastissima, non ancora del tutto esplorato dalla dottrina, la cui completa trattazione richiede di approfondire molteplici e complesse questioni di teoria generale del diritto amministrativo. In questa sede ci si limiterà pertanto a svolgere soltanto alcune brevi considerazioni a margine della pronuncia del Consiglio di Stato, prendendo le mosse dai primi approfondimenti dottrinali sul tema[9].
3. Negli ultimi anni si assiste alla crescente diffusione di un fenomeno che viene genericamente definito soft law o, secondo l’espressione impiegata nell’esperienza francese, droit souple[10].
La dottrina, che non ha mancato di rintracciare nel diritto internazionale e nel diritto europeo l’origine di queste categorie, pur dubitando della loro stessa configurabilità[11] – ha chiarito che con esse si tende a descrivere un particolare insieme di atti, con denominazione, forma e contenuto invero assai diversificati tra loro, che condividono un carattere comune: l’essere privi di efficacia immediatamente vincolante. In altri termini, si tratta di atti che dettano “precetti” non sorretti da sanzione e dunque rimessi alla spontanea osservanza del destinatario[12].
In proposito si usa contrapporre la soft law (e la c.d. soft regulation) alla hard law (e hard regulation): gli atti del primo tipo tendono a “suscitare, raccomandare e orientare” il comportamento del destinatario; viceversa, gli atti di hard law servono per “ordinare, prescrivere o vietare”, secondo il ben noto schema tradizionale.
Nella prassi amministrativa nostrana, è sempre più frequente riscontrare atti riconducibili alle categorie della soft law e soft regulation, specialmente nell’ambito dell’attività delle autorità indipendenti ma anche, come testimonia la vicenda in esame, nell’ambito dell’attività di Amministrazioni non statali.
In dottrina[13] non si è peraltro mancato di osservare che già da tempo si conoscono nel nostro ordinamento atti, anche di carattere normativo, privi di efficacia vincolante per il destinatario (si pensi, per tutti, alle c.d. circolari interpretative).
Vi è però un profilo che sembra caratterizzare in senso innovativo il crescente ricorso a tali “strumenti”: esso deve essere rintracciato nella convinzione, chiaramente espressa da taluni studi[14], che a determinati risultati pratici si possa pervenire tanto attraverso l’adozione di provvedimenti recanti precetti vincolanti (e in quanto tali soggetti ad un determinato regime normativo), quanto attraverso “atti informali”, maggiormente flessibili sia dal punto di vista del contenuto che delle modalità di adozione, con cui non si impongono regole di condotta ma si tende ad esercitare una sorta moral suasion, influenzando i comportamenti e suggerendo le scelte ritenute preferibili, servendosi di tecniche differenti.
Sembra che tale convinzione si stia facendo strada anche all’interno della pubblica Amministrazione, specie se si considera che, dal punto di vista pratico, le esigenze a cui simili atti possono rispondere sono le più diverse e variano notevolmente a seconda delle circostanze concrete in cui le singole Amministrazioni si trovano ad operare. In primo luogo, vi è certamente un’esigenza di “flessibilità”, intesa come adattabilità del “precetto”, specie nei settori in cui l’evoluzione della scienza e della tecnica impone costantiaggiornamenti. Ciò pare ben ragionevole, nella misura in cui consente all’Amministrazione di provvedere in modo più efficace alla cura degli interessi pubblici.
Vi è però il timore che, dietro alla proliferazione di tali atti flessibili, si possano celare anche più riposte, e poco commendevoli, ragioni, attinenti all’osservanza delle norme sull’esercizio del potere amministrativo e all’attribuzione delle responsabilità per l’adozione di determinati atti. In altri termini, potrebbe emergere una censurabile tendenza a servirsi di questo genere di atti per conseguire determinati risultati evitando di sottostare alle disposizioni normative poste a garanzia dei diversi interessi che di volta in volta vengono in rilievo, anche in considerazione del consolidato orientamento giurisprudenziale sull’impugnabilità degli atti amministrativi non immediatamente produttivi di effetti giuridici immediati[15].
La diffusione di atti di soft law e soft regulation pone dunque un serio problema di tutela[16].
Da questo punto di vista, la vicenda oggetto della sentenza in commento pare indicativa.
Con ogni probabilità, l’opzione per una diversa tipologia di atto, denominata “raccomandazione”, in luogo di un provvedimento vincolante, non è infatti casuale: si è infatti accennato al fatto che, in anni recenti, il giudice amministrativo ha avuto modo di pronunciarsi sui provvedimenti – ad effetti vincolanti – con cui talune Regioni (inclusa la Regione Veneto) avevano disciplinato le condizioni di utilizzo di determinati farmaci in difformità rispetto a quanto stabilito a livello nazionale dall’AIFA, ritenendoli illegittimi e annullandoli.
Dietro l’adozione di un atto privo di efficacia vincolante, quale la raccomandazione, si potrebbe esser portati a intravedere il tentativo dell’Amministrazione di raggiungere con uno strumento di regolazione flessibile quel medesimo risultato – la limitazione dell’utilizzo di taluni farmaci per ragioni di razionalizzazione della spesa sanitaria regionale – che non è stato possibile raggiungere con atti di hard regulation.
È qui che si inserisce, con portata certamente innovativa, la pronuncia in commento.
Come visto, il Consiglio di Stato ha infatti ritenuto che tali raccomandazioni, condizionando la possibilità di prescrizione da parte dei medici, ha limitato di fatto la commerciabilità dei farmaci prodotti dalla ricorrente e dunque inciso sulla sua sfera soggettiva[17].
Probabilmente, nel pervenire a questa conclusione, la sentenza ha forse operato alcune forzature, sia in punto di qualificazione della posizione sostanziale configurabile in capo alla ricorrente (e conseguentemente di legittimazione al ricorso), sia sotto il profilo dell’apprezzamento dell’interesse al ricorso, in particolare nella parte in cui vengono ritenuti irrilevanti i dati relativi alle vendite dei farmaci prodotti dalla ricorrente e interessati dalle raccomandazioni regionali.
Tuttavia, nella modesta opinione di chi scrive, un’attenuazione del rigore del giudizio in ordine a questi pur fondamentali profili ben può ritenersi giustificata dall’esigenza di garantire una tutela piena ed effettiva di fronte a nuove forme di manifestazione del potere pubblico, specie in presenza di una riflessione teorica ancora frammentaria e in quadro normativo non ancora perfettamente sistemato per ricondurre entro i binari della legalità sostanziale l’adozione di questi atti “flessibili”.
4. Per concludere questa breve nota di commento, ci si permette di svolgere alcune considerazioni personali.
Il controllo giurisdizionale sugli atti della pubblica Amministrazione è espressione di un principio irrinunciabile dello Stato di diritto, scolpito a chiare lettere nella nostra Carta costituzionale agli articoli 24, 103 e 113[18].
Le mutevoli e più o meno nuove forme con cui il potere pubblico tende a manifestarsi non dovrebbero mai essere valutate dagli operatori del diritto in modo preconcetto o persino ideologico, bensì con una curiosità ispirata ad un atteggiamento di prudenza e saldamente ancorata all’ordinamento giuridico vigente.
Ecco perché si ritiene che la diffusione di atti di soft law e di regolazione “flessibile”, se da un lato può certamente contribuire a migliorare le tecniche di governo della cosa pubblica (tema su cui però è doveroso lasciare il campo agli studiosi della scienza dell’Amministrazione), d’altro canto deve essere rigorosamente assoggettata ai principi cardine dell’ordinamento, primi fra tutti i principi di legalità e giustiziabilità.
Raccomandazioni, suggerimenti, consigli, incentivi, disincentivi e “pungoli” di ogni genere, oltre a richiedere un’approfondita riflessione su talune categorie fondamentali del diritto amministrativo, impongono seri interrogativi, anche de iure condendo, sulla sufficienza delle garanzie di tutela attualmente offerte dall’ordinamento ai soggetti che vengono interessati da simili atti.
Laddove, infatti, gli atti di soft regulation finiscono con il produrre conseguenze del tutto simili a quelle derivanti dall’adozione di tradizionali provvedimenti autoritativi[19], sarebbe difficile giustificare una limitazione del sindacato giurisdizionale semplicemente con riguardo ad esigenze di coerenza formale del sistema di giustizia.
È per questa ragione che pronunce come quella in commento, pur potendo suscitare in ordine a taluni profili dubbi sulla piena coerenza con le linee di fondo del sistema, debbono essere accolte con assoluto favore: l’estensione dei confini della giustiziabilità a nuove tipologie di atti della pubblica Amministrazione consente infatti di offrire puntuale e adeguata risposta a nuove esigenze di tutela che, sembra ragionevole pensare, si presenteranno con sempre maggiore frequenza in futuro a causa dei notevoli stimoli al cambiamento e all’evoluzione che l’ordinamento amministrativo riceve, soprattutto per effetto dei processi di integrazione con ordinamenti sovranazionali.
Nella certezza che il giudice amministrativo continuerà a rendere giustizia rispetto all’esercizio del potere pubblico, «Non la giustizia che si fa “perisca il mondo”, ma quella che si fa “perché il mondo non perisca”: non secondo un principio inesorabilmente negativo, ma secondo un principio altamente positivo e costruttivo».
Seguendo il sempre vivo insegnamento di Enrico Guicciardi[20].
Antonio Falchi Delitala
*Con la presente nota a sentenza, l’avv. Antonio Falchi Delitala del Foro di Roma si è classificato primo nella edizione 2017 del Premio “Enrico Guicciardi”. Per una lettura integrale del provvedimento commentato si rimanda alla sentenza allegata.
[1] Cons. Stato, Sez. III, sent. 29 settembre 2017, n. 4546, pubblicata sulla rivista internet www.lexitalia.it.
[2] TAR Veneto, Sez. III, 6 novembre 2015, n. 1150.
[3] E in particolare la deliberazione della Giunta Regionale n. 952 del 18 giugno 2013 e il decreto del Direttore Generale dell’Area Sanità e Sociale della Regione Veneto n. 119 del 12 maggio 2015 di approvazione delle “raccomandazioni evidence based” sull’uso di taluni farmaci per il trattamento del carcinoma ovarico deliberate da una speciale Commissione Tecnica Regionale.
[4] Le locuzioni stanno ad indicare che «Si nutrono dei dubbi sul fatto che il farmaco debba essere utilizzato nella maggioranza dei pazienti, ma si ritiene che il suo impiego debba essere tenuto in considerazione» e che il Farmaco sia «utilizzabile solo in casi selezionati di pazienti».
[5] Non può darsi conto, nemmeno sommariamente, della vastissima letteratura in materia, che peraltro interseca temi fondamentali del diritto processuale, quali l’effettività del contraddittorio e la parità delle parti; in questa sede non può però omettersi di ricordare il contributo di E. GUICCIARDI, Sulla nozione di controinteressato nel giudizio amministrativo, in Giur. it., 1948, III, c. 101.
[6] Tra le tante si v. ad es. Cons. Stato, Sez. IV, 6 giugno 2011, n. 3380, sulla posizione di controinteressato rispetto ad un provvedimento di demolizione in materia edilizia.
[7] Esula dai limiti della presente nota la ricostruzione dell’articolato quadro normativo vigente in materia. Sul punto, per tutte, si v. Cons. Stato, Sez. III, 2 febbraio 2015, n. 490, che ha annullato un decreto del Direttore Generale della Sanità della Regione Lombardia con cui erano state stabilite specifiche limitazioni all’uso di taluni farmaci oncologici in ambito ospedaliero.
[8] Oltre alla citata Cons. Stato, Sez. III, n. 490/2015, si v. anche Cons. Stato, Sez. III, 8 settembre 2014, n. 4538, che ha annullato i provvedimenti con cui la Regione Veneto aveva stabilito condizioni di utilizzo di un farmaco per il trattamento di patologie oculistiche difformi rispetto a quanto stabilito a livello statale dall’AIFA.
[9]Senza pretese di completezza, si ricordano i contributi di G. MORBIDELLI, Linee guida ANAC: comandi o consigli?, Relazione al 62º Convegno di studi di amministrativi, Varenna 20-22 settembre 2016, in Dir. amm., 2016, p. 273 ss.; M. RAMAJOLI, Self regulation, soft regulation e hard regulation nei mercati finanziari, in Riv. reg. merc., 2016, f. 2, p. 53 ss.; M. MAZZAMUTO, L’atipicità delle fonti nel diritto amministrativo, in Dir. amm., 2015, p. 683 ss., spec. par. 5.4. Si v. anche M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, 2a ed., Bologna, 2015, p. 90-91, che tratta del tema degli atti di c.d. soft law tra i profili evolutivi del sistema delle fonti del diritto amministrativo.
[10] Al tema il Conseil d’État francese ha recentemente dedicato uno dei suoi studi annuali: Le droit souple, 2013, liberamente consultabile online.
[11]In questo senso sembrano prevalentemente esprimersi gli studiosi: si v. G. MORBIDELLI, cit., par. 16; F. FRANCARIO, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in www.federalismi.it, 19.4.2017, p. 9, anche per ulteriori richiami.
[12] La soft law «consiste nell’insieme di strumenti, spesso informali (inviti, segnalazioni, comunicazioni, note informative, auspici, messaggi, ecc.), volti a influenzare i comportamenti delle autorità amministrative e degli amministrati […] La componente autoritativa-prescrittiva di questo tipo di fonti appare recessiva rispetto a quella per così dire persuasiva-sollecitatoria»: così M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 90 (corsivo aggiunto).
[13] Si v. M. MAZZAMUTO, L’atipicità, par. 5.4, che sul punto richiama la molto autorevole opinione di Santi Romano.
[14] Ci si limita a ricordare il citato studio del Conseil d’État, spec. p. 56 e p. 189 ss., dove si parla significativamente di identità della funzione assolta da droit dur e droit souple, ciò che avallerebbe la fungibilità delle relative tecniche di regolazione.
[15] La giurisprudenza amministrativa si mostra infatti costante nel ritenere non autonomamente impugnabili questo genere di atti, in quanto privi di carattere provvedi mentale e insuscettibili di incidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei potenziali destinatari. In tal senso, tra le tante, si v. Cons. Stato, Sez. VI, 3.5.2010, n. 2503, che ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso una delibera non vincolante dell’AVCP: «non avendo gli atti impugnati natura provvedimentale, siccome consistenti in null’altro che in un contributo utile all’orientamento dei comportamenti degli operatori del settore dei lavori pubblici, deve concludersi per l’inammissibilità del ricorso proposto in primo grado» (corsivo aggiunto). Per ulteriori riferimenti al panorama giurisprudenziale si v. M. RAMAJOLI, Self regulation, soft regulation, op. cit., spec. p. 69-71.
[16] Molte altre sono le questioni che in realtà potrebbero porsi, ma che qui non è possibile trattare: ci si potrebbe ad es. domandare se l’adozione di atti privi di effetti giuridici diretti può ritenersi conforme con il generale principio di certezza dei valori e dei traffici giuridici, principio a cui tutti i maggiori ordinamenti moderni si ispirano e su cui si sono modellati alcuni degli istituti basilari del diritto privato e pubblico; o domandarsi in che rapporto si pongono tali atti privi di effetti giuridici rispetto alla norma attributiva di potere; e ancora, ci si potrebbe chiedere quale genere (o quali generi) di responsabilità è possibile configurare per l’adozione di tali atti, e via discorrendo.
[17] Si noti che un caso analogo è stato recentemente affrontato dal Conseil d’État francese: lo riferisce M. RAMAJOLI, op. ult. cit., p. 71, nota 54, a cui si rinvia per ulteriori indicazioni.
[18] Nella sterminata letteratura, si v. i contributi di A. POLICE nel Commentario della Costituzione della Repubblica Italiana, a cura di A. Celotto, R. Bifulco e M. Olivetti, Torino, 2006, vol. I, p. 501 ss. e vol. III, p. 1987 ss.
[19] In dottrina si è efficacemente parlato di una soft regulation che produce effetti “di tipo cripto-hard”: così M. RAMAJOLI, op. ult. cit., p. 70, che argomenta: «Ma allora se la soft regulation produce effetti cripto hard, anche il sindacato deve essere quello classico hard e cioè un sindacato diretto nei confronti della misura in questione».
[20] Le parole del Maestro citate nel testo sono tratte dalla celebre nota Ha vinto il diritto, in Giur. it., 1952, III, c. 68, con cui si commentava l’importante decisione di Cons. Stato, Ad. Plen., 20 marzo 1952, n. 6 sull’illegittimità di un’espropriazione disposta con decreto legislativo dal Governo.