Sono particolarmente grato a Federica e Andrea Manzi per avermi invitato ad onorare con un mio scritto i sessant’anni di feconda attività giuridica del padre Luigi.

Chiunque eserciti la professione di avvocato nel ramo del diritto amministrativo e abbia avuto modo di assistere, almeno una volta, alle udienze che si celebrano settimanalmente presso il Consiglio di Stato non può non avere incrociato nelle aule di Palazzo Spada la figura carismatica dell’avv. Luigi Manzi, che di quelle aule è tuttora assiduo frequentatore.

Ma per gli avvocati veneti, in particolare, l’avv. Manzi rappresenta un punto di riferimento, dal momento che da mezzo secolo, ormai, il suo Studio costituisce l’approdo di elezione per moltissime cause nate a Venezia e approdate a Roma, in grado di appello.

La ragione di tale scelta è da rinvenirsi, essenzialmente, in due fattori, che non oscurano certo le capacità e le doti dell’avv. Manzi, ma aiutano a comprendere le radici del suo legame con la terra veneta: da un lato, la circostanza che egli volle studiare e laurearsi in giurisprudenza nell’Università di Padova, rimanendo poi affettivamente legato a quanti aveva qui conosciuto durante gli studi; dall’altro, il profondo rapporto di collaborazione ed amicizia instaurato con il suo coetaneo, e non meno noto avvocato veneziano, Ivone Cacciavillani, vivace animatore del Foro amministrativo veneto e oggi Presidente onorario dell’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti.

Manzi, dicevo, studiò a Padova, quando la Facoltà giuridica patavina era forse all’apice della sua fama (riconquistata a cavallo delle due guerre mondiali) e costituiva motivo di richiamo per molti studenti della Penisola. Egli vi si laureò nel 1956, sotto la guida del prof. Alberto Trabucchi, insigne civilista, con il quale Manzi strinse un solido rapporto di amicizia e frequentazione, esteso alle rispettive famiglie e secondo forse al solo rapporto che egli coltivò, ricambiato, con un altro indimenticato maestro della Scuola giuridica patavina in quello stesso periodo, il prof. Giorgio Oppo. Con Oppo, infatti, Luigi Manzi ebbe a collaborare per lunghi anni anche sul piano professionale, dacché questi lasciò Padova nel 1963, per approdare all’Università La Sapienza di Roma, ove insegnò poi ininterrottamente il diritto commerciale fino al suo congedo, avvenuto nel 1991. Questo legame venne ricordato dallo stesso Luigi Manzi nel discorso di commemorazione tenuto a Roma nel quinto anniversario della scomparsa del maestro ([1]) e accennato anche nel ricordo che di Oppo fece il prof. Gian Carlo Rivolta l’anno successivo alla sua morte ([2]).

A Padova e al Veneto, peraltro, Luigi Manzi è legato anche perché, durante gli studi universitari, egli vi conobbe Maria Ausiliatrice, per tutti Maricina, altra brillante allieva di quella Scuola patavina, che proveniva dalla città di Bolzano e che egli naturalmente sposò, portandola seco nella capitale, per costruire in terra romana la solida famiglia che tutti conosciamo e condividere con lei un amore esemplare e profondo, che resiste al tempo e ad ogni avversità. Del resto, chi non ricorda con ammirazione e gratitudine gli splendidi ricevimenti che, insieme ai figli, Luigi e Maricina organizzavano per gli amici provenienti da tutta Italia nella loro splendida casa di campagna a Rignano Flaminio ?

All’inizio degli anni Sessanta, tutto lasciava presagire che il giovane avvocato Manzi, allievo di Oppo e Trabucchi, avrebbe intrapreso, sulle orme dei maestri padovani, una brillante carriera di civilista, ma il nostro s’invaghi, per fortuna degli avvocati veneti, del diritto amministrativo, che ha praticato e continua a praticare ai più alti livelli da più di dieci lustri, come conferma il meritato riconoscimento, ottenuto nel 2008, del premio dedicato alla memoria di Aldo Sandulli.

Della sua opera, invero, e oggi anche di quella dei suoi non meno bravi figlioli, si sono avvalsi e continuano ad avvalersi moltissimi avvocati amministrativisti della nostra regione, così come si avvale da molti anni, ormai, la stessa Regione Veneto, che egli spesso difende nei frequenti contenziosi contro lo Stato, promossi dall’una o dall’altro innanzi alla Corte costituzionale.

Chiunque voglia togliersi la curiosità di vedere quanti giudizi legati al Veneto abbiano visto protagonista l’avv. Luigi Manzi, innanzi al Consiglio di Stato o alla Corte costituzionale, potrà interrogare i rispettivi siti istituzionali e scoprirà che: davanti al primo sono stati pronunciati dal 2000 ad oggi almeno 2333 provvedimenti, tra sentenze, ordinanze e decreti, nei quali compaia il nome del nostro Collega, accostato all’aggettivo o al sostantivo “Veneto”; mentre la seconda ha pronunciato almeno 140, tra sentenze e ordinanze, nelle quali compaia il nome “Veneto” accanto a quello dell’avv. Luigi Manzi. I riferimenti salgono di diverse migliaia di unità ove si provi a cercare, con un comune motore di ricerca, gli accostamenti tra i nomi “Luigi Manzi” e “Veneto”, con riferimento anche alle pronunce della Corte di cassazione o del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

Insomma, il connubio tra l’avv. Luigi Manzi e il Veneto ha solide ragioni storiche e familiari e ha dato senz’altro molti frutti nel campo del diritto civile e amministrativo.

Tra i molti rami di questo frondoso albero, chi scrive ritiene di averne scorto uno, forse più riservato e meno battuto, ma che ha probabilmente coinvolto, anche emotivamente e personalmente, l’uomo e il credente che albergano in Luigi Manzi, il cui sentimento religioso ci è discretamente rivelato nelle frasi che chiudono il ricordo da lui dedicato al prof. Oppo ([3]).

A tale ramo appartengono le controversie giudiziarie, nelle quali egli ha avuto occasione di affrontare, da difensore e da avvocato amministrativista, il delicato tema della libertà di culto.

Tra queste, quella certamente più nota, è la vicenda dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. E anch’essa, singolarmente, è una vicenda di provenienza veneta ([4]).

Tutto nasce, come il lettore potrà ricordare, dal ricorso promosso da un genitore di origini finlandesi contro una scuola di Abano Terme (PD), in allora frequentata dai propri figli, non credenti, il cui Dirigente si era rifiutato di rimuovere i crocifissi che erano stati appesi nelle aule, in forza delle vigenti disposizioni regolamentari sull’arredo scolastico.

La vicenda è assurta agli onori delle cronache giudiziarie nazionali, negli anni scorsi, perché si sono pronunciati nell’ordine sull’argomento: il T.A.R. Veneto ([5]), la Corte costituzionale ([6]), ancora il T.A.R. Veneto ([7]), il Consiglio di Stato ([8]), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ([9]). Con la conclusione che la presenza del crocifisso non è stata ritenuta contraria al principio di laicità dello Stato e neppure idonea a turbare il sentimento religioso o agnostico degli studenti, di qualunque credo o convinzione essi siano. In particolare, mentre la Cedu ha affermato che l’obbligo di affissione del crocifisso non dimostra l’esistenza di un indottrinamento degli studenti da parte dello Stato, ma rappresenta semplicemente una tradizione che questo può decidere di perpetuare, il giudice amministrativo italiano ha sostenuto che il crocifisso, oltre ad essere un simbolo religioso, rappresenta un elemento identitario, radicato nella storia e nella cultura del nostro Paese, nel quale trovano espressione i valori civili (propri dello Stato laico) della tolleranza, del rispetto reciproco, della valorizzazione della persona, dell’affermazione dei suoi diritti, del riguardo alla sua libertà, dell’autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, della solidarietà umana, del rifiuto di ogni discriminazione.

A quella vertenza, peraltro, l’avv. Manzi non avrebbe preso parte, se non fosse stato, ancora una volta, per l’iniziativa di due colleghi veneti, a lui molto cari, gli avv.ti Ivone Cacciavillani e Sergio Dal Prà, che avevano vanamente cercato di intervenire ad opponendum, a difesa dell’ostensione del crocifisso, nel giudizio promosso dinnanzi al T.A.R. Veneto. Essi, infatti, chiesero all’amico Luigi di affiancarli nel giudizio di appello, ricevendo – ne sono certo – un entusiastico e incondizionato assenso, scevro da qualsiasi interesse professionale. Accomunati dal solo ideale di difendere ciò in cui credevano, i tre amici riuscirono non già nell’impresa, forse prevedibile ([10]), di far confermare nel merito la sentenza di rigetto di primo grado, bensì nella meno scontata battaglia volta ad ottenere la riforma della sentenza del T.A.R. in punto di ammissibilità del loro intervento ad opponendum. Con tenace caparbia, infatti, essi riuscirono a far dichiarare ammissibile l’intervento dell’associazione culturale da essi costituita, attraverso l’importante riconoscimento che l’interesse (legittimo) da essi fatto valere aveva per il Consiglio di Stato la stessa dignità dell’interesse contrario, che aveva legittimato l’impugnazione da parte del genitore padovano ([11]).

In questo impegno civile, che va loro riconosciuto, a prescindere dalla condivisione delle posizioni sostenute, sta anche la statura dei tre valenti Colleghi.

Ma non vorrei indulgere oltre su un caso, che tanto è stato dibattuto in dottrina ([12]). Vorrei piuttosto dedicare qualche riflessione personale al tema dei rapporti tra disciplina urbanistica e libertà di culto e alla più recente vicenda, che ha portato alla dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 2 della legge regionale del Veneto 12 aprile 2016, n. 12, impugnata dal Governo e sapientemente difesa, ancora una volta, dall’avv. Luigi Manzi. Fu proprio lui, infatti, a sostenere la discussione in quel processo e, a giudicare dal risultato, dev’essere stata una discussione piuttosto convincente, visto che la sentenza della Corte è stata molto meno severa di quello che si poteva prevedere, sulla scorta del precedente di appena un anno prima, relativo all’art. 1 della legge regionale della Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, dichiarato incostituzionale con la sentenza 24 marzo 2016, n. 63.

Ed invero, con sentenza 7 aprile 2017, n. 67 ([13]), la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto articolo 2, nella sola parte in cui, nell’introdurre nella legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), l’art. 31 ter, al suo comma 3, disponeva che «Nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto». Ma ha al contempo rigettato tutte le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Governo, che riguardavano anche il nuovo art. 31 bis.

In pratica, la Corte costituzionale ha ritenuto legittime e non discriminatorie le disposizioni che affidano rispettivamente alla regione e ai comuni il potere di individuare, ciascuno nell’esercizio delle proprie competenze, i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi e che assegnano allo strumento urbanistico il compito di assicurare la qualità urbana, imponendo che le aree e gli immobili da destinarsi alla realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi garantiscano: la presenza di strade di collegamento adeguatamente dimensionate; la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria, tra cui adeguati spazi da riservare a parcheggi pubblici; la presenza di distanze adeguate tra le aree o gli edifici da destinare alle diverse confessioni religiose; la realizzazione di adeguati servizi igienici, nonché l’accessibilità alle strutture da parte di disabili; la conformità e la congruità con le previsioni degli strumenti territoriali sovraordinati ed in particolare con riferimento al loro inserimento nel contesto urbano e paesaggistico. Così come ha riconosciuto legittimo lo strumento preordinato al raggiungimento di tali risultati e individuato dalla legge regionale nella sottoscrizione, tra il comune e il soggetto richiedente, di una convenzione urbanistica contenente anche un impegno di quest’ultimo, garantito da fideiussione, a copertura degli impegni assunti.

Mentre ha ritenuto estranea al governo del territorio e finalizzata ad obiettivi di pubblica sicurezza, riservati allo Stato, dichiarandone pertanto l’incostituzionalità, la previsione che demandava alla convenzione in parola la possibilità di prevedere l’impegno del richiedente di imporre l’uso della lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto ([14]).

Il fulcro del ragionamento svolto dalla Consulta è che la Regione Veneto abbia in massima parte correttamente operato all’interno delle propria potestà legislativa concorrente in materia di governo del territorio, facendo tesoro degli errori che la Regione Lombardia aveva commesso adottando la legge n. 2 del 2015, dichiarata incostituzionale con la citata sentenza n. 63 del 2016. Diversamente dalla legge lombarda, infatti, quella veneta avrebbe avuto l’accortezza di riservare il medesimo trattamento a tutte le confessioni religiose, indipendentemente dall’esistenza di eventuali intese stipulate ai sensi dell’art. 8 della Costituzione.

In entrambe le occasioni, invero, la Corte ha ribadito che l’esercizio delle libertà previste dall’art. 19 Cost. non è condizionato da forme preventive di riconoscimento o dalla stipula delle intese di cui all’art. 8 della Carta fondamentale. La libertà religiosa, infatti, è garantita a tutti senza condizioni. E lo è direttamente dalla Costituzione, in forza del principio di laicità dello Stato ivi affermato, che non è beninteso l’indifferenza verso il fenomeno religioso, ma è l’assunzione di un atteggiamento non discriminatorio verso le diverse culture, tradizioni e istituzioni religiose, nelle quali le diverse comunità si organizzano e si riconoscono. Perché la libertà religiosa non esprime solo il diritto di professare in privato la propria fede, ma anche di poter celebrare pubblicamente il culto e di farne propaganda, così come prevede l’art. 19 (che contempla il solo limite del buon costume), di talché rientra all’interno di tale libertà, sin dalla sentenza costituzionale n. 59 del 1958, anche il diritto di aprire luoghi di culto ([15]).

Lo stesso Papa Francesco, in numerosi suoi discorsi, tra i quali merita di essere ricordato quello rivolto alle popolazioni ispaniche d’America in occasione della sua visita a Filadelfia nel 2015, ha affermato che il valore assoluto della libertà religiosa non è diretto a garantire una libertà privata e intima dell’individuo, ma a rendere possibile una dimensione pubblica della sua personalità, che è il presupposto per costruire una civiltà pluralista, unica vera condizione per avere un mondo di pace e giustizia ([16]).

Epperò questi principi sono oggi minacciati da un pericolo subdolo e strisciante, che nasce dall’insicurezza generata nei cittadini da quelli che vengono avvertiti come i mali della globalizzazione: il terrorismo di matrice fondamentalista; l’immigrazione incontrollata; l’insicurezza sociale; il graduale peggioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti; l’acuirsi delle differenze sociali all’interno del mondo occidentale; la frattura sempre più profonda tra il mondo occidentale e le altre civiltà. L’idea che si va diffondendo è che la religione possa diventare il veicolo per diffondere odio, violenza, insicurezza, in altre parole la corruzione di una società sana, minandone la condizione di pace e benessere e sgretolandone le fondamenta.

Si assiste, quindi, al tentativo di limitare o condizionare una libertà fondamentale, non già negandone in assoluto e in astratto il valore, ma agendo sulle norme che possono limitare, in modo indiretto, la libertà del culto. Ne sono emblematici esempi i tentativi della politica locale o regionale di impedire o rendere comunque più difficile l’apertura di luoghi di culto o centri di cultura religiosa, soprattutto se legati agli ambienti di cultura islamica.

Mentre a garanzia di tali diritti troviamo il giudice amministrativo e la Corte costituzionale.

La sentenza della Consulta sulla legge veneta è stata oggetto di critiche da parte dei primi commentatori, i quali hanno osservato, da un lato, che la Corte non ha chiaramente indicato quali parametri costituzionali la Regione Veneto avesse violato ([17]), dall’altro, che la Corte avrebbe dichiarato parzialmente incostituzionale la norma regionale, senza considerare che la stessa contemplava una mera facoltà (“Nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per….”) e non certo l’obbligo di utilizzare la lingua italiana al di fuori delle pratiche strettamente rituali ([18]).

Tali obiezioni non sembrano, però, condivisibili.

La sentenza è stata forse sbrigativa nel liquidare la questione sollevata in via principale dal Governo, ma è abbastanza agevole per il lettore comprendere che essa rimprovera alla Regione Veneto di avere travalicato le sue competenze in materia di governo del territorio e di averlo fatto in modo irragionevole e stravagante, perché in alcun modo l’uso della lingua italiana può avere attinenza con l’adeguatezza delle opere di urbanizzazione o con la corretta localizzazione dell’infrastruttura religiosa sul territorio comunale ([19]). La Corte l’ha detto in modo sufficientemente chiaro, pur senza invocare specificamente la violazione degli artt. 117 e 3 Cost., e non avrebbe dovuto spendere molte altre parole per esprimere più nitidamente il concetto.

Al contrario, l’obiezione che la convenzione urbanistica di cui all’art. 31 ter della legge regionale n. 11 del 2004 non imporrebbe l’uso della lingua italiana, ma lascerebbe alle parti la libertà di introdurre un simile impegno finisce, in realtà, per provare troppo. La disposizione, infatti, va letta per quel che può anche significare, ovverosia che la convenzione urbanistica possa, per volontaria e unilaterale disposizione del comune, pretendere che la parte privata assuma, contro la sua volontà, l’impegno di utilizzare la lingua italiana per tutte le funzioni strettamente non rituali.

Ben sanno, invero, gli avvocati amministrativisti che il contenuto delle convenzioni urbanistiche è raramente il frutto di due volontà egualmente libere, per lo più risolvendosi l’accordo nell’accettazione rassegnata da parte del contraente privato delle condizioni imposte dall’Amministrazione; cosicché la vera tutela della parte privata non sta nella sua libertà di accettare o non accettare quanto gli viene chiesto dall’amministrazione (una sorte di prendere o lasciare), ma nell’indicare a monte, nella legge o nel piano, ciò che l’amministrazione può o non può chiedere alla controparte. Affermare, infatti, nella legge che la convenzione può prevedere l’assunzione di un certo impegno da parte del privato si traduce immediatamente nel concetto che l’Amministrazione possa legittimamente pretendere, per firmare la convenzione, che il privato assuma quell’impegno, anche se non lo vorrebbe fare.

E prevedere la possibilità di contrarre un impegno, che non ha apparente giustificazione nella disciplina urbanistica, come quello di utilizzare la lingua italiana, è certamente una forzatura. Bene ha fatto, quindi, la Corte a dichiarare illegittima questa inopportuna previsione.

Senza dire che il diritto di esprimersi nella propria lingua, al pari di quello di esercitare liberamente il culto, è senz’altro un diritto fondamentale della persona, una garanzia per la libertà e l’uguaglianza degli individui ([20]). Cosicché susciterebbe molti dubbi, anche sul piano della validità e della effettiva cogenza nei confronti dei singoli fedeli, una convenzione con la quale i rappresentanti di una comunità religiosa s’impegnassero a rinunciare a un diritto indisponibile e individuale, come l’uso della propria lingua, obbligandosi collettivamente ad usare, in un certo luogo e proprio per il fatto di trovarsi in quel certo luogo, quella italiana.

Traendo spunto da questa osservazione, che la Corte non sembra avere adeguatamente considerato, chi scrive osserva che la Consulta avrebbe potuto essere indotta dal Governo ad affrontare anche altri profili di possibile incostituzionalità della legge veneta, rimasti invece totalmente estranei alla decisione qui commentata. Il primo attiene all’ampiezza dei compiti dello strumento urbanistico. Il secondo all’uso del referendum consultivo.

L’art. 31 ter della legge regionale veneta sul governo del territorio, infatti, si preoccupa di demandare allo strumento urbanistico comunale il compito di garantire che le attrezzature di interesse comune per servizi religiosi sorgano o vengano insediate all’interno di zone urbanisticamente compatibili, dotate di adeguate infrastrutture urbanizzative, nel rispetto delle norme di tutela dell’ambiente e del territorio, ma non impone, allo stesso tempo, e in positivo, ai comuni l’obbligo di individuare delle aree all’interno delle quali la domanda di apertura di nuovi luoghi di culto possa essere soddisfatta. Cosicché una norma apparentemente egalitaria e non discriminatoria, quale sembra essere il citato art. 31 ter, può, in realtà, consentire il perpetuarsi di una situazione di oggettiva disparità esistente tra quelle confessioni che, in virtù di uno storico radicamento sul territorio, già dispongono di propri luoghi di culto (magari in contrasto con la sopravvenuta disciplina urbanistico edilizia e non adeguati alla normativa sugli standard urbanistici) e quelle confessioni che, pur rappresentando una comunità di fedeli sufficientemente ampia e stabilizzata, non possono invece realizzarne di nuove, per mancanza di aree idonee allo scopo, ovvero reperire immobili esistenti dei quali possa essere legittimamente modificata la destinazione d’uso per renderla compatibile con la celebrazione di riti religiosi.

La preoccupazione del comune, in altre parole, non dovrebbe essere soltanto quella di subordinare l’assenso alla realizzazione di nuovi edifici di culto al rispetto delle norme urbanistiche, ma pure quella di individuare dei siti o degli immobili idonei ad ospitare nuove chiese, ogniqualvolta se ne avverta l’oggettiva necessità. E ciò proprio al fine di impedire che l’esercizio del diritto a chiunque garantito dall’art. 19 Cost., di professare la propria fede e di svolgere la preghiera in forma pubblica e comunitaria (con il solo limite del buon costume), non sia impedito nei fatti dalla mancanza di aree o immobili a ciò deputati o costretto a svolgersi nella clandestinità o in locali non idonei allo scopo, sotto il profilo urbanistico o igienico sanitario.

Potrebbe, invero, sembrare paradossale che il nostro ordinamento imponga al comune che ne sia sprovvisto, di individuare sul proprio territorio, anche in deroga o in variante allo strumento urbanistico, delle aree idonee allo svolgimento di attività produttive, in applicazione dell’art. 8 del D.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, e non avverta al tempo stesso il bisogno di garantire una equipollente soddisfazione, attraverso il doveroso adeguamento dello strumento urbanistico, ad un primario e fondamentale diritto, costituzionalmente riconosciuto, com’è quello di professare la propria fede. Ma così sembrano stare, oggi, le cose.

C’è poi il discorso del referendum, sul quale merita di essere svolta qualche ulteriore osservazione.

In proposito, il solo limite che dovrebbe incontrare il potere-dovere dell’Amministrazione di individuare nello strumento urbanistico delle aree vocate alla costruzione di luoghi di culto è da individuarsi nella necessaria compatibilità della scelta urbanistica con la caratteristiche del territorio e con i vincoli di natura culturale e paesaggistica. Giammai una scelta necessaria alla soddisfazione di un bisogno individuale, che risponde ad un diritto fondamentale, ancorché espresso da un singolo individuo o da una minoranza di persone, dovrebbe invece essere subordinato al consenso politico e all’approvazione della maggioranza dei cittadini. È proprio, infatti, delle libertà fondamentali il poter essere tutelate e garantite anche a favore di un solo individuo e nei confronti della volontà espressa dalla maggioranza dei consociati.

Cosicché è da vedersi con sospetto ogni norma che, al pari dell’ultimo comma dell’art. 31 ter, della legge regionale Veneto n. 11 del 2004, consenta di svolgere referendum consultivi in materia di apertura di nuovi luoghi di culto. Questi luoghi non sono e non possono essere trattati, sul piano delle scelte urbanistiche, alla stregua di un centro commerciale, in merito alla cui apertura i cittadini possano essere chiamati ad esprimere il loro consenso in via preventiva. Non è infatti immaginabile che l’assenso alla costruzione di un luogo di culto possa essere condizionato, anche solo indirettamente, dal consenso popolare.

Né la questione può essere liquidata ipocritamente affermando che l’esito di un referendum consultivo non è comunque vincolante per l’autorità locale. Il fatto stesso che la decisione non potrebbe essere minimamente condizionata dall’esito del referendum, poiché da essa dipende la soddisfazione di un diritto fondamentale, dimostra anzi che la consultazione non dovrebbe essere fatta proprio perché sarebbe a priori inopportuna e del tutto inutile.

Probabilmente, è proprio per quanto la Corte ha detto in merito alla legge lombarda, dichiarando inammissibili le censure rivolte contro la disposizione che concedeva ai comuni la facoltà di indire referendum sui piani delle attrezzature religiose, che il Governo ha omesso di impugnare la corrispondente previsione della legge veneta, ma il punto dovrà prima o poi essere nuovamente scrutinato dalla Consulta, con maggiore senso critico. Nessuno, infatti, può negare che l’esito contrario di una consultazione referendaria giocherebbe un ruolo importante (e forse decisivo) nel condizionare in senso restrittivo le scelte urbanistiche dell’amministrazione, favorendo scelte politiche improntate al consenso popolare, più che al corretto esercizio del potere di pianificazione. E che, in tal modo, il referendum finirebbe col condizionare l’esercizio di un diritto fondamentale, al pari di un’autorizzazione amministrativa, contravvenendo così ai principi tanto chiaramente affermati dalla Consulta fin dalla richiamata sentenza n. 59 del 1958.

Ma se questo è un capitolo aperto, che ancora non è stato definito, esistono ormai in giurisprudenza dei punti fermi.

Tra questi, ad esempio, resta un principio giuridico, alla cui emersione ha concorso anche l’opera professionale dell’avv. Luigi Manzi, il quale è stato in diverse occasioni coinvolto in contenziosi amministrativi concernenti l’apertura di luoghi di culto nel territorio delle Tre Venezie ([21]).

Ed invero, il principio che le recenti decisioni della Corte costituzionale su Veneto e Lombardia sembrano avere confermato, e che già era emerso nei contenziosi seguiti dall’avv. Manzi innanzi al Consiglio di Stato, è che l’apertura di nuovi luoghi di culto, resa possibile dalla costruzione di nuovi edifici o dalla trasformazione di edifici esistenti, anche attraverso il mutamento funzionale della destinazione d’uso, è operazione che può in concreto incidere sul carico urbanistico e che non può, anche per questa ragione, essere compiuta in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico o in violazione delle norme sugli standard urbanistici.

Non diventi però questo principio, difeso egregiamente e con caparbietà anche dall’avv. Manzi, il pretesto addotto dai comuni per avallare un uso distorto e sviato del potere di pianificazione del territorio e di controllo sull’attività edilizia. Così da pervenire, attraverso la formale applicazione di un principio, al sostanziale disconoscimento di un diritto fondamentale.

Prendendo a prestito le parole pronunciate di recente, a Padova ([22]), dal prof. Aldo Travi, secondo il quale non c’è giusta battaglia che non meriti di essere combattuta, sarebbero infatti per primi i giuristi che si professano autenticamente cattolici, come il “nostro” Luigi Manzi ([23]), a restarne profondamente delusi.

Alessandro Calegari

 

*Il presente intervento riprende l’analogo contributo pubblicato in “La professione del giurista – Scritti in onore di Luigi Manzi” – Editoriale scientifica, Napoli, 2018

 

([1]) Vedilo in L. Manzi, Ricordo di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 2015, 430 ss.

([2]) G.C.M. Rivolta, Diritto e valori nella vita e nell’opera di Giorgio Oppo, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2009, 607 ss.

([3]) Nelle quali il nostro riferisce, con tono senz’altro adesivo, le perplessità manifestate dal maestro, ormai gravemente ammalato, sull’esito giudiziario della triste vicenda di Eluana Englaro, disconoscendo in particolare il c.d. « diritto di morire » e ribadendo che né lo Stato, né il Giudice, né altri possano disporre della vita.

([4]) Ma si veda pure il singolare caso del ricorso in appello proposto nel 2008 dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – Uaar contro l’autorizzazione concessa dal Ministero della pubblica istruzione alla visita pastorale dell’Ordinario diocesano alle comunità scolastiche dei Comuni di Rovolon e Cervarese Santa Croce (PD), nel quale l’avv. Luigi Manzi difendeva, con l’amico Ivone Cacciavillani, l’allora Vescovo di Padova, mons. Antonio Mattiazzo.

([5]) Cfr. T.a.r. Veneto, Sez. I, ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale 14 gennaio 2004, n. 56.

([6]) Cfr. Corte cost., ord. 15 dicembre 2004, n. 389, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione.

([7]) Cfr. T.a.r. Veneto, Sez. III, 22 marzo 2005, n. 1110, con cui il ricorso è stato respinto nel merito.

([8]) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556, con cui è stato rigettato l’appello proposto avverso la sentenza del T.a.r. Veneto n. 1110/2005.

([9]) Cfr., dapprima, la sentenza 3 novembre 2009, n. 819, che ha condannato la Repubblica Italiana a pagare alla ricorrente 5.000 euro, per avere violato l’art. 9 della Convenzione, sulla libertà di culto, e l’art. 2 del protocollo addizionale n. 1, sul diritto all’educazione; quindi, la decisione della Grande Camera, a cui l’Italia si era appellata, 18 marzo 2011 (caso 30814/06), secondo la quale non contrasta con il diritto dei genitori all’istruzione dei figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche l’obbligo di affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, in quanto, a dispetto della sua connotazione religiosa, il crocifisso rappresenta un simbolo passivo, inidoneo di per sé a configurare una forma di indottrinamento degli allievi.

([10]) Anche se la scelta di un estensore diverso dal relatore, ricavabile dal testo della sentenza, lascia intuire che possano essere insorte delle divergenze di opinione all’interno del collegio giudicante.

([11]) Afferma testualmente la sentenza del 2006: “Non è dubbio che le due Associazioni, con il loro intervento, hanno manifestato un interesse simmetrico a quello della ricorrente, e, pertanto, ugualmente meritevole di essere fatto valere in giudizio. Un tale interesse è titolo sufficiente per intervenire in giudizio, senza la necessità di ulteriori specificazioni. L’utilità che può derivare alle due associazioni intervenute dalla conservazione dell’atto impugnato non è certamente di ordine patrimoniale, ma è parimenti di assoluto rilievo giuridico, perché è riconducibile al medesimo ordine di interessi, anche se di segno contrario, fatti valere dalla ricorrente”.

([12]) Il vasto dibattito sull’argomento è bene riassunto da M. Pacini, La Cedu e il crocifisso nelle aule scolastiche, in Giorn. dir. amm., 2011, 851 ss., a cui si rinvia anche per gli ampi riferimenti bibliografici.

([13]) Pubblicata nella Gazz. Uff. 12 aprile 2017, n. 15, prima serie speciale.

([14]) In proposito, la Corte ha ritenuto che la previsione risulta palesemente irragionevole in quanto incongrua sia rispetto alla finalità perseguita dalla normativa regionale in generale – volta a introdurre «Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio» –, sia rispetto alla finalità perseguita dalla disposizione censurata in particolare – diretta alla «Realizzazione e pianificazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi».

La sentenza osserva che la Regione è certamente titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure. Ma essa eccede da un ragionevole esercizio di tali competenze se, nell’intervenire per la tutela di interessi urbanistici, introduce un obbligo, quale quello dell’impiego della lingua italiana, del tutto eccentrico rispetto a tali interessi.

([15]) Afferma testualmente quella sentenza: “Con l’art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, col solo e ben comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri”.

([16]) Leggilo in rete su: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/september/documents/papa-francesco_20150926_usa-liberta-religiosa.html.

([17]) Così L. Brunetti, in “Palese irragionevolezza” o “totale eccentricità”: quale vizio “appare evidente”? I dubbi sulla (insoddisfacente) motivazione, di una giusta decisione, in www.forumcostituzionale.it, secondo cui “Il vizio appare assai meno evidente, quantomeno nella sua reale natura, di quanto la Corte non ritenga, almeno nel senso che non appare del tutto perspicuo quale norma costituzionale risulti violata dalla legge regionale”.

([18]) In tal senso V. Peterle, Edifici di culto: la legge urbanistica veneta non supera a pieni voti l’esame della Corte

Costituzionale, in www.amministrativistiveneti.it, secondo cui “ci si può chiedere se la disposizione regionale cassata potesse essere letta non tanto come impositiva di un obbligo tout court di utilizzo della lingua italiana, come tale illegittimo, bensì come facoltizzante, nell’ambito dell’autonomia negoziale che va riconosciuta alle parti che addivengono ad una «convenzione» urbanistica, l’assunzione dell’impegno all’utilizzo della lingua italiana «per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto»”.

([19]) E ciò benché la Regione avesse cercato di difendere la norma affermando che la previsione avrebbe natura e funzione sociale, nel senso di «favorire l’integrazione di tutti gli appartenenti alla comunità», essendo volta non all’introduzione di un limite o un vincolo all’esercizio della libertà di religione, ma al superamento di «una delle principali barriere sociali, quella della lingua, favorendo l’integrazione».

([20]) Si veda, tra gli altri, in argomento, il contributo di P. Bonetti, Diritti fondamentali degli stranieri, in www.altrodiritto.unifi.it/frontier/bonetti.htm., nonché il volume, a cura dello stesso Autore, L’uso della lingua negli atti e nella comunicazione dei poteri pubblici italiani, Torino, 2016.

([21]) Tra i quali possono essere ricordati i casi di: Salorno (BZ), deciso dal Cons. Stato, Sez. IV, con sentenza 27 luglio 2010, n. 4915; e Trento, deciso dal Cons. Stato, Sez. IV, con sentenza 16 marzo 2012, n. 1488.

([22]) Intervenendo al Seminario ivi organizzato dalla locale Sezione dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani il 27 ottobre 2017 sul tema: Libertà di culto e pubblici poteri: Riflessioni sui limiti di diritto pubblico opponibili all’esercizio di una libertà fondamentale.

([23]) Nostro nel senso di veneto, quale a noi piace affettuosamente considerare l’avv. Luigi Manzi.

 

 

 

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