È noto che la telematizzazione dei processi serve soprattutto a trasferire il lavoro delle cancellerie o delle segreterie dei tribunali sulle spalle degli avvocati.
Il processo amministrativo telematico, in particolare, è costruito a questo scopo, perché l’avvocato spedisce i suoi atti e i suoi documenti in un pacchetto che, una volta arrivato a destinazione con una pec, si colloca automaticamente nel fascicolo telematico giusto e con l’ordine giusto, per il tramite di una serie di comandi che il pacchetto – cioè il file contenente il modulo di deposito – impartisce al server della Giustizia amministrativa.
Tutte queste cose, che il pacchetto spedito dall’avvocato aziona, corrispondono a quegli incombenti che, prima del P.A.T., avrebbe fatto la segreteria del T.A.R.: consegna di ricevuta dell’avvenuto deposito; inserimento degli atti e dei documenti nel fascicolo d’ufficio; loro repertoriazione.
L’ennesima cripto-imposta, dunque, sotto forma di una corvée imposta al professionista.
Ma di queste cose ho già parlato in più di una occasione.
Oggi ho scoperto, invece, qualcosa di nuovo.
Come si sa, talvolta, la mail con cui si spedisce il “pacchetto” viene respinta dal sistema.
A volte capita perché il pacchetto è stato compilato male dall’avvocato (sul quale, a questo punto, grava non solo la responsabilità del tempestivo deposito, ma anche quella della sua corrispondenza ai parametri di lavoro delle segreterie dei tribunali).
Altre volte capita perché il sistema informatico del tribunale è andato in palla, come appunto mi è successo oggi.
Io credevo, fino a oggi, che la mail rimbalzata finisse nel paradiso degli elettroni.
Non è così.
A seguito di un’indagine personale con la collaborazione di un cortesissimo addetto alla segreteria di un T.A.R. diverso da quello nostrano, ho scoperto che i Tribunali o il Consiglio di Stato ricevono ugualmente la mail e sono ugualmente in grado di leggerla oltre che, naturalmente, di aprire il modulo (ma quest’ultima operazione è ben possibile a chiunque).
Del resto, non potrebbe essere diversamente, a ben pensarci, perché pur sempre, quando spediamo il nostro pacchetto, riceviamo la seconda pec detta “di consegna”, perché appunto è stata consegnata nella casella di posta elettronica del destinatario.
Semplicemente, quando vi è un mancato deposito, la pec inviata dall’avvocato non si implementa automaticamente nel database dei fascicoli. Ma è ferma lì, nell’account di posta elettronica certificata del tribunale.
Se si trattasse di una mail pec pervenuta a me, non potrei negare di averla ricevuta e di conoscerne il contenuto.
Il giudice, invece, sì, perché, se il modulo non è conforme alle specifiche tecniche e non è stato implementato nel gestionale del processo telematico, è come se il giudice non avesse mai ricevuto la pec spedita dal difensore, benché sia stata a tutti gli effetti acquisita dalla p.e.c. istituzionale della segreteria del tribunale.
Al di là dei problemi giuridici che a questo punto si pongono (1- davvero si può dire che il deposito non sia avvenuto? Se perfino in Cassazione accettano i depositi con lettera raccomandata, perché mai non dovrebbe valere il deposito spedito con la quasi equipollente p.e.c.? 2 – che natura ha la pec di “mancato deposito”? è una sorta di rigetto in rito?), tutto questo è detto per sollevare una questione
Perché mai, infatti, quando il S.I.G.A. è down, le segreterie non fanno come si faceva una volta, quando si depositava a mano? e perché le segreterie non prendono quella mail dell’avvocato a cui è conseguito un “mancato deposito” e che pure hanno in avvenuta consegna sì da inserirne direttamente il contenuto nel fascicolo telematico?
La risposta alla domanda è che non si può.
La disciplina – neppure regolamentare, va ricordato – del P.A.T. non prevede questa ipotesi; non prevede alcun intervento diretto delle segreterie sul fascicolo telematico e non prevede che le stesse possano fare oggi quello che, fino a ieri, era il loro tradizionale lavoro.
Se si è deciso che il lavoro delle segreterie deve essere fatto dall’avvocato, deve farlo l’avvocato e basta.
Ormai le segreterie si sono nobilitate e non possono più tornare a seguire le loro tradizionali incombenze. E l’avvocato rischia di farsi scadere il termine.
Le mie considerazioni si inseriscono infine in un insieme di riflessioni più ampio.
Ieri, dopo molto tempo (e finalmente), mi sono recato al T.A.R. per discutere un’udienza “in presenza”.
Le singole udienze erano state efficacemente scaglionate in vari turni, in modo da ridurre l’affollamento.
Tuttavia, agli avvocati dei turni successivi al turno contingentemente in trattazione non è nemmeno stato consentito di accedere al cortile interno.
Si è chiuso il cancello del palazzo e gli avvocati hanno dovuto aspettare in quella piccola calle che porta a Palazzo Grimani.
Era una bella giornata, per fortuna, ma se avesse piovuto sarebbe andata così lo stesso.
Mentre osservavo la cosa, mi chiedevo che cosa avrebbe detto Ivone se fosse stato presente e credo di saperlo.
Avrebbe alzato la voce non di poco, avrebbe preteso di farsi aprire e avrebbe spiegato che i palazzi dei tribunali sono tanto dei giudici quanto degli avvocati; che entrambe le categorie hanno lo stesso diritto e lo stesso dovere di potervi accedere.
Ma, sulla falsariga questo ipotetico discorso di Ivone, mi chiedo anche se le cancellerie e le segreterie dei Tribunali siano strumentali all’istituzione o siano strumentali solo al lavoro dei magistrati.
Perché, nel secondo caso, riuscirei a capire perché sia stata prevista la loro minore collaborazione all’attività degli avvocati.
Nel primo caso, lo capirei un po’ meno.
Francesco Volpe