Come è noto, la prima volta che il termine “paesaggio” ha fatto ingresso nella nostra legislazione, è stato al livello più alto, con l’art. 9 della Costituzione del 1948: ricompreso addirittura tra i principii fondamentali della stessa.
Per vero, già nel disegno di legge poi divenuto la legge 20 giugno 1909, n.364 (“per l’antichità e le belle arti”), la c. legge Rava , tra le cose da tutelare, se rivestenti particolare merito, si prevedeva la comprensione anche di “giardini, foreste, paesaggi, acque e tutti quei luoghi ed oggetti naturali che abbiano l’interesse”: ma il Senato non approvò tale disposizione .
In un di poco successivo disegno di legge del 1910, l’on. Rosadi tentò nuovamente di tutelare “ i paesaggi , le foreste, i parchi, i giardini, le acque, le ville e tutti quei luoghi che hanno un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia e con la letteratura”. Nella sua relazione introduttiva Rosadi si chiedeva così se è “possibile che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?”: ma il disegno non divenne mai legge.
Per avere una prima legge organica di protezione delle bellezze naturali bisognò attendere il 1922, quando fu approvata la c.d. legge Croce (dal nome del grande filofoso che ne fu promotore da Ministro della Istruzione Pubblica), la legge n.778 dell’11 giugno: “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico”.
Nella legge, per vero, non viene menzionato il paesaggio, ma nella Relazione del Senatore Croce questo era più volte nominato, parlandosi di “bellezza naturale o del paesaggio” e dandone una prima poetica sommaria definizione, ricordando come “anche il patriottismo nasce dalla secolare carezza del suolo agli occhi, ed altro non essere che la rapprentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli”.
I principii della legge Croce sono stati poi sviluppati –con la distinzione tra bellezze individue e bellezze d’insieme e con la previsione di una pianificazione paesistica- dalle leggi Bottai del 1939 (che pur non parlavano di paesaggio) che, alla fin fine, sempre col collegamento con i beni che oggi definiamo culturali, sono stati anche elementi di spinta per la formulazione dell’art. 9 della Costituzione repubblicana. E stabilendo questo che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione” –termine quest’ultimo che fa tornare alla mente l’ode “Marzo 1821”, ove Alessandro Manzoni definì l’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”- venne non solo costituzionalizzata la difesa del patrimonio culturale e delle bellezze naturali, ma, come ricordavo poc’anzi, per la prima volta in un testo legislativo –ed il più importante- si parlò espressamente di tutela del “paesaggio”, collegato ai beni culturali , finalizzato allo sviluppo della cultura: e separato dall’urbanistica.
Lo stesso, però, non veniva chiarito in cosa effettivamente consistesse: e per averne una prima indicazione (sia pur a livello di proposta) bisognò attendere, alla fine degli anni ’60, la conclusione dei lavori della Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio (c.d. Commissione Franceschini, dal nome del suo Presidente), che –anticipando il concetto di patrimonio culturale oggi evidenziato nel Codice Urbani-, affermò che “appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggetati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico” –separati dunque tra di loro e solo al primo facendo riferimento l’originario testo dell’art. 117 della Costituzione-, “archivistico e librario ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”.
Ma i pur fondamentali principii indicati dalla Commissione Franceschini rimasero a lungo solo sulla carta ed il paesaggio, a seconda dei vari momenti degli ultimi decenni dello scorso millennio, venne spesso via via attratto nell’ambito della c.d. panurbanistica o del panambientalismo.
Una visione più unitaria e autonoma dello stesso e meno collegata a soli valori estetici si ebbe –grazie alla nuova disciplina dei piani paesaggistici- con la Legge Galasso del 1985 e con la giurisprudenza del giudice amministrativo e della Corte Costituzionale, che lo venne a considerare come valore “primario ed assoluto”, da tutelarsi in modo prevalente rispetto all’urbanistica (ed oggi, al governo del territorio), ed alla distinzione (dopo che nel 1974, con decreto legge, fu istituito un unitario Ministero per i beni culturali ed ambientali) tra Ministero per i beni culturali e Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.
Ma continuava a mancare qualsivoglia definizione legislativa del paesaggio: ed ancora nel 1999, il T.U. n. 490 –che pur nella rubrica del suo titolo II indicava “i beni paesaggistici e ambientali”, di fatto poi, nelle varie sue disposizioni, si riferiva a quelli che oggi chiamiamo beni paesaggistici come a “beni ambientali”, con l’unica eccezione di quelli tutelati per legge (ex L. Galasso) che si affermava essere “comunque sottoposti alle disposizioni di questo titolo in ragione del loro interesse paesaggistico” (quando invece è noto che, in gran parte, si tratta di interesse ambientale od ecologico: ma evidentemente è tuttora vero che rubrica legis non est lex!).
A livello sovranazionale però, nel 2000, la fondamentale Convenzione europea del paesaggio di Firenze (pur ratificata dall’Italia solo nel 2006, con la legge n.14) definì il paesaggio come “una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione dei fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, espressione “ della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”.
Orbene, il Codice dei beni culturali e del paesaggio –che pur in molte sue parti ancora riprende, a conferma della loro permanente validità, indicazioni delle leggi Bottai-, emanato col decreto legislativo n. 42 del 2004, pur non avendo ancora il Parlamento italiano ancora recepita la Convenzione di Firenze, non poteva sostanzialmente non tenerne conto: e su di essa in gran parte si fonda. Così lo stesso –“in attuazione dell’art. 9 della Costituzione”, come si legge nelle prime parole dell’art. 1- ha dato, finalmente, all’art. 131, la prima definizione legislativa del paesaggio, per tale intendendosi “il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni” e va tutelato “relativamente a quegli aspetti e caratteristiche che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
Si è sostituito il termine “beni ambientali” con quello di “beni paesaggistici”, si è resa obbligatoria la pianificazione paesaggistica con riferimento a “tutto il territorio” di ogni Regione (art. 135), considerato non più in forma statica ma dinamica, e distinguendo nettamente il paesaggio non solo dall’ambiente ma anche dall’urbanistica.
Va notato peraltro che –a differenza di quanto dovrebbe avvenire con i codici- il decreto Urbani ha subito plurime e talora contrastanti modificazioni (ogni Ministro volendo lasciare la sua impronta) e tuttora riproduce molte delle disposizioni delle leggi del 1939, rimanendo in buona parte ancora legato a concezioni estetiche, e significative (il che non significa sempre condivisibili) erano le modifiche costituzionali in materia approvate dal Parlamento ma non dal referendum popolare del 2016.
Viene quindi da chiedersi se il titolo dell’odierno Convegno (“Il diritto del paesaggio a quindici anni dalla sua codificazione: un consuntivo per il futuro”) sia del tutto esatto o se non dovrebbe chiudersi con un punto di domanda o parlando di un preventivo per il futuro.
Marino Breganze de Capnist
* Introduzione al Convegno su “Il diritto del paesaggio a quindici anni dalla sua codificazione: un consuntivo per il futuro” tenutosi il 22 marzo 2019 presso l’Università di Padova