1. Uno degli obiettivi principali del decreto semplificazioni (d.l. 16 luglio 2020, n. 76 convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120) è quello di completare nel più breve tempo possibile i procedimenti di gara per l’affidamento e l’esecuzione degli appalti pubblici. Da un lato l’esigenza di mostrarsi pronti a gestire con tempestività la cura delle ferite inferte dalla pandemia e, dall’altro lato, la consapevolezza dei ritardi che contrassegnano il campo dei contratti pubblici hanno indotto il Governo a spingere sull’acceleratore con misure innovative e indubbiamente rivelatrici di una determinazione riformatrice non trascurabile.
Intervenendo nel bel mezzo di un dibattito che aveva visto la dottrina del diritto amministrativo discutere – non senza passione – sulla possibilità e opportunità di accettare forme di conversione della tutela demolitoria in tutela risarcitoria al fine di agevolare la stipula e la stabilità dei contratti di appalto, il decreto legge n. 76 del 2020 ha scelto di agire su alcuni fattori che dovrebbero, nelle intenzioni del Governo, conciliare rapidità e salvaguardia delle tutele [1].
Anzitutto si stabilisce un termine “certo” entro il quale giungere all’individuazione del contraente mediante aggiudicazione dell’appalto. E si commina, in caso di sforamento, sia una prospettiva di responsabilità erariale a carico dei funzionari della stazione appaltante sia una causa di esclusione da altri analoghi procedimenti a carico dell’operatore economico qualora a quest’ultimo il ritardo fosse imputabile. Poi, con una disposizione che ad avviso di chi scrive è il nucleo essenziale di questa riforma, si stabilisce che alla stipula del contratto si deve giungere tempestivamente e che, dunque, la mera pendenza di un ricorso giurisdizionale – che non abbia già prodotto una misura cautelare a sua volta incidente sugli effetti dell’aggiudicazione – non giustifica alcun ritardo [2].
Nei procedimenti avviati entro il 31 dicembre 2021, sia quelli sotto soglia sia quelli sopra soglia, si applicherà anche l’art. 125, comma 2, c.p.a., il quale mira a contenere la tutela cautelare mediante specifica ponderazione dell’interesse pubblico all’esecuzione dell’appalto. Nei procedimenti previsti dal comma 3 dell’art. 2, vale a dire quelli caratterizzati da un’urgenza derivante dalla crisi pandemica, è prevista l’applicazione dell’art. 125 c.p.a. nell’intero, e dunque anche di quella specifica disposizione che sancisce l’intangibilità del contratto ormai stipulato.
Questo sistema dunque amputa l’intervento giudiziale della tutela demolitoria solo nel citato (e circoscritto) caso dell’urgenza da Covid-19 (comma 3 dell’articolo 2, del d.l n. 76 del 2020, appunto) e sempre che non sia stata emanata un’ordinanza cautelare con effetti sospensivi dell’aggiudicazione. Per il resto, è fatto salvo l’ordinario sistema di misure che proiettano la tutela di annullamento sul terreno contrattuale (artt. 121 e 122 c.p.a.). È evidente che una tale facoltà convive con la spinta alla stipula del contratto, che domina questa riforma, come si diceva; tuttavia una siffatta facoltà, per l’appunto, non è stata eliminata.
2. La norma chiave, come si anticipava, è quella che esplicitamente non consente né alla stazione appaltante né all’aggiudicatario di attendere ad aprire la fase negoziale per il solo fatto che pende un ricorso davanti al giudice amministrativo.
È una previsione centrale perché mette apertamente in crisi – e sarebbe meglio dire che sembra vietare – la prassi invalsa in questo tipo di contenzioso: il ricorso, nella larga parte dei casi, è sì munito di domanda cautelare, ma tale domanda non viene trattata, perché le parti e il Collegio giudicante optano per un rinvio del giudizio ad un’udienza che viene fissata in un tempo piuttosto breve. La riunione al merito senza pronuncia cautelare è quasi la regola e quando invece il giudice emana un’ordinanza di sospensione solitamente valuta solo il periculum in mora, senza esplorare il merito della questione, sicché la sua decisione interinale ha perlopiù il sapore di una “sospensiva tecnica” avente solo lo scopo di veicolare il giudizio verso la fase di merito da definire con sentenza. Insomma, la prassi registra un’evidente dequotazione del giudizio cautelare, al fine di giungere rapidamente ad una sentenza di merito. Questo, di regola, accade sia nel giudizio di primo grado, sia nel giudizio di secondo grado come ben sanno gli addetti ai lavori.
Ci sarebbe da ragionare sul perché si sia formata una prassi di questo tipo, dato che essa, a ben vedere, è distonica rispetto al disegno stilato nella “direttiva ricorsi” così come novellata dalla direttiva 66/2007/CE, la quale viceversa cerca di conciliare l’effettività della tutela giurisdizionale e la stabilità dei contratti della p.a. individuando proprio la fase cautelare come spartiacque ed elemento di equilibrio: si concede solo un breve termine processuale di standstill ancorato al giudizio cautelare, dopodiché l’azione amministrativa può procedere sino alla stipula.
Probabilmente le ragioni di questa situazione sono soprattutto tre: (i) la crisi del giudizio cautelare che, dopo una fase di splendore (fors’anche eccessivo) risalente agli anni ’80 e ’90 sin dalla legge n. 205 del 2000, ha dovuto cedere il passo all’idea che la giustizia amministrativa debba esprimersi con sentenza definitiva, anche per evitare l’improprio consolidarsi di situazioni di fatto che legano l’amministrazione alla produzione di un mero effetto cautelare di sospensione, e quindi con una forte direzione impressa dal legislatore verso la fase dell’udienza pubblica di discussione del ricorso; (ii) il fatto che il legislatore, a sua volta, ha imposto termini molto stringenti per la pronuncia della sentenza in questa materia, da ultimo col d.l. n. 90 del 2014, sicché la stretta continuità cronologica dell’udienza di merito ha reso meno significativa la fase cautelare; (iii) l’inarrestabile “giurisdizionalizzazione” dei rapporti istituzionali, tratto caratteristico e progressivo della Repubblica da qualche decennio, che nel caso di specie vieppiù esalta la funzione giurisdizionale e riduce il ruolo della stazione appaltante, le cui decisioni finali sono sovente intese come uno sviluppo – e non certo come una anticipazione – della scelta che sarà fatta dal giudice.
Tale prassi, per un verso, è capace di produrre una decisione definitiva di secondo grado in un tempo davvero molto breve, specie se comparato con la media della giurisdizione italiana in senso ampio (e su questo non si può che far plauso al giudice amministrativo); per altro verso, è tale da posporre la decisione amministrativa alla celebrazione di due giudizi, di primo e secondo grado. Il che inevitabilmente implica il trascorrere di un tempo ben superiore a quello dello standstill e che, con tutta l’imprecisione di una stima sommaria desunta dall’esperienza, potrebbe essere inquadrato tra i 12 ed i 24 mesi.
Il decreto semplificazioni, pertanto, ritiene che questo differimento non debba più esser consentito e che quantomeno la stipula del contratto debba tempestivamente seguire la chiusura della fase procedimentale.
Questo dovrebbe implicare che, quando la sospensione cautelare non sia accordata, la sentenza di merito dovrà confrontarsi con la realtà di un contratto ormai stipulato e in corso di esecuzione. Il giudice potrà sì esercitare i poteri previsti nell’art. 122, che come sappiamo includono anche l’eventuale subentro nel contratto, ma potrà anche combinare o sostituire alla tutela demolitoria quella risarcitoria.
3. Questa scelta, fors’anche perché il dibattito era già molto vivace alla data della sua emanazione, non ha mancato di suscitare qualche perplessità. Oltre a sottolineare la rapidità del giudizio amministrativo – un tratto innegabile, vero e proprio fiore all’occhiello del giudice speciale, come ricordato – si è invocato solitamente il principio di effettività della tutela giurisdizionale, collegandovi la tradizionale centralità della tutela di annullamento.
La scelta di politica legislativa, tuttavia, sembra a chi scrive in linea di massima condivisibile. Non soltanto perché la Corte costituzionale ha ben chiarito che la tutela risarcitoria può anche tener luogo di quella demolitoria senza che ne derivi una necessaria lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 113 Cost. [3], non soltanto perché il diritto dell’Unione Europea nella menzionata direttiva 66/2007/CE acconsente a questa sostituzione purché sia riconosciuta una tutela cautelare efficace e non discriminatoria, ma anche perché, come si è visto e come si dirà, il decreto legge non ha imposto troppo brusche inversioni di metodo, ma ha cercato un punto di equilibrio. E nel farlo, evidentemente, ha avvertito con forza il bisogno di avviare una fase di ripresa economica in modo assolutamente tempestivo, dato che l’ordine globale che seguirà lo scenario pandemico si assesterà in tempi rapidi e senza particolari favori per l’uno o l’altro Stato. La sfida per la Repubblica è epocale: senza questa consapevolezza le argomentazioni rischiano di essere avulse dal contesto degli interessi in gioco da regolare. Non si tratta di andare oltre il diritto: il diritto è ordine degli interessi: ubi societas ibi jus.
Sia concesso aggiungere una breve considerazione a questo proposito.
L’evocazione del principio di effettività della tutela nella necessaria forma costitutiva dovrebbe anche misurarsi con la realtà processuale italiana prima di pretendere una declinazione in forma troppo assoluta.
Tale realtà nel settore dei contratti pubblici ha troppo spesso ospitato un contenzioso formalistico, sterile dal punto di vista dell’efficiente allocazione delle risorse e teleologicamente asfittico, riducendo l’esperienza giurisprudenziale (giurisprudenza in senso romanistico, e quindi con l’inclusione della dottrina, del Foro e degli operatori tutti) ad una severissima applicazione di una par condicio svuotata di contenuti e intrisa di cavilli, termini e regole, talvolta inspiegabilmente lontanissimi dalla tradizione pragmatica e sostanzialistica del diritto amministrativo e soprattutto del giudice amministrativo come giudice speciale della p.a. [4]. La saga di precedenti legati alle esclusioni e all’articolo 80 del codice del 2016, che si tratti di compilare la casella degli oneri di sicurezza o di meditare su quale “grave illecito professionale” non sia stato tempestivamente dichiarato (benché già valutato dalla stazione appaltante), è eloquente in merito. Sovente non è stato un contenzioso che avesse come “ragion per cui” la selezione del migliore o di chi avesse davvero le carte in regola sul piano sostanziale; tutt’altro. A questo stato di cose, come ben sanno gli addetti ai lavori, si è cercato di porre rimedio con le norme che hanno tipizzato le cause di esclusione, negando alla stazione appaltante di introdurne di nuove, nonché con la regola processuale che ha prescritto l’impugnazione immediata, oltre che delle esclusioni, anche delle ammissioni, posta all’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. Tuttavia anche queste misure, di fronte ad un contesto che sul piano dei principi fondanti è rimasto pressoché intatto, non hanno avuto il successo sperato e il contenzioso ha mantenuto i tratti che si sono testé descritti.
Inoltre, la scelta fatta dal decreto semplificazioni, tutta maturata sul terreno dell’emergenza pandemica, rilancia una verità troppo a lungo sottaciuta, benché rimasta chiara nella consapevolezza degli operatori: la materia dei procedimenti di gara per la selezione degli appaltatori pubblici è ineliminabilmente contrassegnata, anche nella dimensione che le deriva dal diritto UE, dall’interesse pubblico all’esecuzione dell’appalto. A parte la discutibilissima (e solo italiana) centrale connessione con l’anticorruzione, anche l’evocazione della concorrenza non può assurgere, da sola, a parametro dominante di una realtà che invece si nutre di altri valori e che, in Italia come in tutti gli altri Stati membri, non perde il suo aggancio all’interesse pubblico ad assicurare alla collettività quel bene della vita che proprio dall’attuazione del contratto può derivare. L’idea che queste norme servano a ordinare la concorrenza e che pertanto il fine dell’ordinamento sia pressoché solo quello di regolare il confronto dei diritti spettanti agli aspiranti aggiudicatari è certamente insufficiente e comunque non vera in termini assoluti. Quindi, ben venga una voce chiarificatrice da parte del legislatore.
4. Quanto detto non significa di certo che il d.l. semplificazioni vada esente da obiezioni. Ad esempio, mi sembra contraddittorio, da un lato, imporre una così accentuata concentrazione processuale e, dall’altro lato, smarrire il coraggio di una consona semplificazione procedimentale. Il rischio è di scaricare sulla disciplina processuale il peso di accelerazioni che – va detto con chiarezza – sono necessarie anzitutto a causa della defatigante progressione procedimentale, nella quale includo sia la fase preliminare di approvazione progettuale con tutte le problematiche connesse alle conferenze di servizi sia la fase di vera e propria evidenza pubblica per l’affidamento del contratto.
Valga soprattutto un dato. Il comma 3 dell’art. 2, del d.l., dedicato agli appalti urgenti per via della pandemia, nel testo originario si limitava pressoché solo a riprodurre la fattispecie dell’art. 63, comma 2, lettera c) [che ammette la procedura negoziata senza bando “quando per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice” i termini per le procedure ordinarie non possono essere rispettati], vale a dire a replicare la disposizione già applicabile a regime. In fase di conversione, non soltanto è stato imposto anche il rispetto del “principio di rotazione”, ma soprattutto è stata richiesta la “previa pubblicazione dell’avviso di indizione della gara o di altro atto equivalente”, il che significa sostanzialmente imporre una sorta di fase di prequalifica, sottraendo all’amministrazione la facoltà di attivarsi spontaneamente sollecitando una pluralità di offerte in via diretta e decidendo poi tra di esse.
Comunque sia, tornando al tema processuale, perché possa funzionare il sistema disegnato nel d.l. semplificazioni occorrerebbe un adeguamento organizzativo del processo. Il giudice amministrativo – soprattutto quello di primo grado, ma non soltanto – dovrebbe assicurare un giudizio cautelare effettivo e con ciò si vuol dire che la cognizione, benché sommaria, non può certo limitarsi al profilo del periculum in mora ma abbracciare – come la legge processuale già vigente in verità prevede, ex art. 55, comma 9, c.p.a. – anche il fumus boni juris. Ove necessario, il giudizio cautelare dovrebbe anche potersi sviluppare in più di un’udienza, al fine di raccogliere gli elementi necessari e di consolidare il contraddittorio in modo da effettuare quella prima valutazione di fondatezza della domanda che si addice alla sospensione dell’aggiudicazione. Potremmo dire che, in qualche modo, si tratterebbe di tornare al passato, ossia a quella prassi viva durante gli ultimi decenni del novecento e nella quale il giudice amministrativo aveva mostrato entusiasmo e riservato grande attenzione verso il giudizio cautelare. In questo modo, il processo cautelare tornerebbe ad essere quello spartiacque che la stessa disciplina dell’UE ha previsto nella direttiva ricorsi. La legge impone alla stazione appaltante di non soprassedere nella stipula del contratto, sicché il giudice amministrativo, in nome dell’effettività della tutela deve provvedere in fase cautelare alla trattazione della questione. Al di là del caso specifico indicato al comma 3 dell’art. 2 del d.l., beninteso, il potere del giudice di incidere sul contratto in sede di merito non verrebbe meno, anche se i poteri previsti nell’art. 122 c.p.a. dovranno essere adoperati con le cautele che in nome dell’interesse pubblico la medesima norma processuale d’altra parte ha cura di stabilire.
È evidente che, viceversa, qualora ciò non accadesse e si perpetuasse la prassi della riunione al merito, la riforma non potrebbe, nei fatti, ben funzionare. Il punto di equilibrio tra l’interesse pubblico alla stipula e attuazione del contratto e l’effettività della tutela giurisdizionale sarebbe smarrito. Infatti, da una parte, avremmo che la stazione appaltante e l’aggiudicatario dovrebbero comunque stipulare il contratto perché pressati dalle “sanzioni” prospettate nel d.l. e la tutela sarebbe rinviata ad un momento talmente lontano dall’inizio dell’esecuzione che, forse, la stessa possibilità di intervento ex art. 122 c.p.a. ne risulterebbe depotenziata. Quest’ultima circostanza, peraltro, potrebbe avere anche dei riflessi sulla questione del riparto di giurisdizione, di cui dirò tra poco.
Esiste, a ben vedere, un’altra possibilità: che il giudice amministrativo, di fronte al rischio – anzi, alla certezza – dell’imminente stipula, anziché sollecitare la riunione della domanda cautelare al merito preferisca in ogni caso sospendere in sede cautelare l’aggiudicazione, al fine di assicurarsi la possibilità di ponderare la controversia nella fase di merito, continuando in altre parole a concentrare la trattazione cautelare sul terreno del periculum e pressoché obliterando il fumus. Ma anche questa eventualità non sembra praticabile. A parte che è la norma processuale a richiedere di valutare entrambi i profili, a parte il peso esercitato dal richiamo all’art. 125, comma 2, c.p.a., questo significherebbe per il giudice amministrativo assumersi una responsabilità troppo delicata, se si tiene conto non soltanto della volontà della legge nazionale ma anche di un prossimo futuro nel quale i tempi di esecuzione degli appalti potranno essere rilevanti per garantire il rispetto delle condizionalità che verosimilmente accompagneranno i fondi del progetto Next Generation EU.
Pertanto, la strada maestra resta quella di provvedere ad una trattazione piena in sede cautelare e di sospendere l’aggiudicazione solo nei casi in cui il profilo di illegittimità dedotto dal ricorrente fosse tale da reggere il convincimento del giudice. Insomma uno scenario nel quale è la valutazione del fumus boni juris ad acquistare centralità rispetto al periculum in mora, sovente ravvisabile in re ipsa in questo tipo di controversie; uno scenario a tratti opposto a quello della prassi consolidatasi negli ultimi anni. Questa notazione oltretutto è confermata anche dal predetto richiamo all’art. 125, comma 2, che vale per l’intero spettro degli appalti da affidare durante il periodo transitorio interessato da questa disciplina speciale: l’attenzione verso l’interesse alla “sollecita” esecuzione del contratto e verso un’attenta comparazione dell’interesse “del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure” può essere superata solo da una concorrente valutazione circa l’effettiva esistenza del fumus boni juris.
5. La seconda parte di questo scritto è dedicata al riparto della giurisdizione e si chiede se questo nuovo assetto processuale possa avere dei riflessi sui rapporti tra giudice amministrativo e giudice ordinario, specie a seguito della posizione assunta dalle Sezioni unite della Cassazione con l’ordinanza n. 19598 del 18 settembre 2020, che, sollevando tre questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE, ha rilanciato la questione dei limiti al controllo delle stesse Sezioni unite nei casi di violazione del diritto dell’UE.
Il criterio di riparto che si è affermato nel corso degli ultimi decenni a proposito delle controversie in materia di contratti pubblici è quello che fissa come spartiacque la stipula del contratto e che separa le due fasi: quella procedimentale, che spetta al giudice amministrativo, e quella negoziale, che spetta al giudice ordinario. Abbiamo così due blocchi temporali lungo i quali si divide la giurisdizione.
Questo criterio è risalente al periodo anteriore alla fine degli anni ’90 ed inizio del nuovo secolo, periodo nel quale i problemi del riparto vissero una stagione di riforme e di veri e propri scossoni interpretativi: basti ricordare il d. lgs. n. 80 del 1998 che introdusse nuovi ambiti di giurisdizione esclusiva del g.a., la pronuncia n. 500 del 1999 delle Sezioni unite che affermò la risarcibilità del danno ad interesse legittimo (anche pretensivo) e la legge n. 205 del 2000, il cui articolo 6, comma 1, ebbe a stabilire un settore di giurisdizione esclusiva per le controversie relative alle procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture gestite da qualsiasi soggetto giuridico che fosse stato obbligato a celebrare una gara per effetto di norme nazionali o comunitarie.
Quella stagione così ricca culminò nella sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale che salvò dalle obiezioni di legittimità costituzionale il metodo della distinzione per blocchi di materie in relazione alla nuova giurisdizione esclusiva del g.a..
Quest’ultimo modello scrutinato dalla Corte però non riguardava, in verità, i procedimenti per l’affidamento dei contratti pubblici. Piuttosto, si addiceva alle altre materie, servizi pubblici ed edilizia e urbanistica. I contratti pubblici non erano oggetto di un’attribuzione per materia della relativa giurisdizione, ma restavano incardinati su una divisione segnata lungo le due predette fasi: procedimentale e negoziale. Questo è dovuto al fatto che la giurisdizione esclusiva di cui discutiamo non era nata per raggruppare entro un certo blocco unitario per “materia” una serie di controversie che potessero anche incidere su diritti soggettivi oltre che su interessi legittimi, bensì per una questione specifica dei contratti pubblici.
Come ben sappiamo, se sino agli anni ’90 era pacifico che la giurisdizione amministrativa dovesse riguardare solo veri e propri interessi legittimi, e quindi le controversie inerenti a procedure di gara condotte da vere e proprie amministrazioni, da quel momento in avanti per effetto delle scelte fatte dall’ordinamento comunitario – che aveva nel frattempo introdotto le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica – la situazione mutò profondamente. L’obbligo di tenere delle gare pubbliche per selezionare il contraente (e secondo le medesime regole, valide per ogni stazione appaltante vincolata ad applicarle) riguardava la p.a. come anche una società in mano pubblica, e dunque era esteso a soggetti avente veste privata. Sicché il problema stava tutto nella difficoltà di riconoscere lo spazio per una giurisdizione amministrativa – circoscritta agli interessi legittimi – che si sarebbe dovuta occupare di pretese avanzate verso soggetti privati, ossia pretese che avrebbero dovuto avere natura di diritto soggettivo.
Sennonché era agevole intuire quanto sarebbe stato irrazionale un sistema che avesse distinto tra due giurisdizioni competenti su soggetti sì diversi – il g.a. per le p.a. e il g.o. per gli organismi di diritto pubblico – ma per l’applicazione delle medesime norme. Sicché si è introdotta la giurisdizione esclusiva prevista dal citato art. 6 della legge n. 205 del 2000, concentrando tutte le controversie sui procedimenti di gara – fossero gare bandite, indifferentemente, da p.a. o da organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche nei settori esclusi – davanti alla giurisdizione amministrativa.
Questa scelta, però – ed è questo il passaggio cruciale – restava compatibile col mantenimento del criterio della distinzione tra fase procedimentale e fase negoziale: al g.a. tutto il procedimento e le relative questioni controversie sino al contratto, senza più distinguere tra p.a. in senso formale e in senso sostanziale; al g.o. tutto quello che sarebbe venuto dopo il contratto.
Nel frattempo, vi era un altro punto controverso, provocato dalla tendenza del giudice amministrativo ad assicurare al ricorrente vittorioso, in nome dell’effettività della tutela, una protezione che avesse anche la forza di incidere sul contratto.
In altre parole, se per le controversie nate in fase esecutiva la giurisdizione ordinaria non era messa in discussione, quelle insorte in relazione alla fase procedimentale avrebbero dovuto, secondo il g.a., concludersi assicurando una tutela “reale” ed effettiva rispetto al bene della vita richiesto: ossia la stipula del contratto. E così in quegli anni si iniziò a postulare anche un’espansione degli effetti del giudicato amministrativo sino a promuovere una sostituzione nella titolarità del contratto a favore del ricorrente vittorioso. Il che però postulava inevitabilmente una nullità e/o inefficacia del contratto stipulato con l’aggiudicatario risultato perdente in sede processuale. Questo atteggiamento del g.a. scuoteva inevitabilmente la sensibilità del g.o., che per tradizione vedeva nel “contratto” un oggetto di irrinunciabile propria spettanza. Anche in questo caso, però, le tensioni vennero risolte da una sopravvenienza: stavolta, come ben ricordiamo, è stata la novella alla direttiva ricorsi di cui alla direttiva 2007/66/CE a fondare e a delimitare quella facoltà di incidenza sul contratto da parte del giudice del ricorso (in Italia il g.a.) che oggi troviamo scolpita negli articoli 121 e 122 c.p.a.
In conclusione, il riparto in materia di contratti pubblici negli anni più recenti e sino ad oggi si è fondato su una duplice regola: (i) il g.a. ha giurisdizione su tutte le controversie che insorgono nella fase procedimentale e sino alla stipula del contratto, mentre il g.o. la mantiene sulle controversie della fase di attuazione del contratto; (ii) il g.a. conserva anche, per le proprie controversie, il potere di incidere sul contratto quando ciò serva a proiettare la tutela sino al risultato consolidato nel giudicato amministrativo e nei limiti e con i presupposti stabiliti dalla legge.
6. Dobbiamo adesso chiederci se la riforma del d.l. semplificazioni possa incidere su tale risultato.
In linea di principio non dovrebbe. Anzi, non vi sono i presupposti perché l’assetto venga messo in discussione. È vero che la conseguenza della riforma dovrebbe consistere nell’anticipazione della stipula del contratto e, quindi in una riduzione del primo blocco temporale (fase procedimentale) e in un ampliamento del secondo (fase negoziale).
L’estensione della fase negoziale, però, non altera i cardini del riparto. Sul piano concettuale resta fermo che il g.a. si occuperà di tutte le controversie riferibili alla fase procedimentale, ma questo non gli impedisce di pronunciarsi anche con effetti sul contratto ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a., come si è già spiegato. L’unico caso in cui resta preclusa l’incidenza sul contratto è quello, del tutto eccezionale, regolato dal comma 3 dell’art. 2 del decreto.
La circostanza di una stipula contrattuale antecedente alla sentenza del g.a., benché rara a verificarsi sino ad oggi a causa della prassi della riunione al merito della domanda cautelare unita all’ormai consueto “impegno a non stipulare”, è già prevista come fisiologica nell’art. 122. Dunque, il sistema del riparto non avrebbe motivo alcuno di essere modificato.
Dobbiamo però tenere in considerazione che vi sono alcuni orientamenti della Corte di cassazione che hanno per effetto di ampliare la giurisdizione del g.o. in materia di contratti pubblici.
E’ stato recentemente segnalato in dottrina che questa tendenza si sarebbe manifestata in almeno tre direttrici principali: un’espansione della giurisdizione ordinaria anche rispetto a controversie che precedono la stipula del contratto e che seguono l’aggiudicazione, ad esempio nei casi in cui è stata disposta l’anticipata esecuzione della prestazione dell’aggiudicatario per ragioni di urgenza; una sottolineatura della natura contrattuale della concessione, al fine di parificare questa figura all’appalto e di sottoporla alla predetta divisione imperniata sulla stipulazione contrattuale, e quindi a scapito della giurisdizione esclusiva del g.a. prevista in materia di concessioni e finora protratta anche in situazioni controverse maturate in fase di esecuzione, con l’unica riserva al g.o. delle cause prettamente paritarie in materia di indennità, canoni o altri corrispettivi [art.133, comma 1, lett. b) e c), c.p.a.] [5]; una prevalente attrazione al g.o. delle controversie in materia di responsabilità precontrattuale, sulla base della rilevanza di comportamenti di mero fatto quand’anche in costanza di valutazioni inerenti il potere pubblico [6].
Sono, questi, tre metodi differenti e che toccano profili distinti della materia dei contratti pubblici, ma che tuttavia ben potrebbero concorrere a ridurre la spazio della giurisdizione amministrativa.
A parte queste indicazioni, si deve poi registrare la recentissima citata ordinanza del 2020, che ha rimesso alla Corte di giustizia tre questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE e che punta a rilanciare il sindacato delle Sezioni unite per la violazione del diritto UE proprio nel settore degli appalti, assumendo che possa esservi in tali casi un difetto assoluto di giurisdizione del g.a. a causa dell’inesistenza della norma interna applicata dal g.a. nonostante il contrasto con la disposizione di una delle direttive rilevanti nel caso di specie.
7. Quindi, se teniamo in debito conto queste tendenze e se, per altro verso, constatiamo che l’arretramento cronologico della stipula del contratto potrebbe nei fatti ampliare la fase negoziale rispetto a quella procedimentale, non possiamo di certo escludere che questa circostanza possa esser presa in esame anche per trarne conseguenze in punto di giurisdizione. E questo nonostante – come detto – sul piano ordinamentale queste modifiche non dovrebbero giustificare una revisione del sistema di riparto.
In primo luogo, questa circostanza potrebbe consolidare una certa propensione a ritenere tout court spettante al g.o. quella controversia che attiene ad una fase di esecuzione delle prestazioni, quand’anche collocata cronologicamente prima della stipula del contratto. La Cassazione è parsa talora propensa a ritenerlo a proposito dei casi di esecuzione in via d’urgenza ai sensi dell’art. 32, comma 8, in nome, appunto, della portata attuativa che verrebbe a contrassegnare il rapporto in questa fase [7]. Se qualche dubbio avrebbe già potuto porsi in relazione ad un’esecuzione della prestazione anticipata rispetto ad un contratto che sarebbe stato stipulato a distanza di tempo (e, ad esempio, col rinvio a fasi successive di una puntuale verifica dei requisiti), i dubbi potrebbero venir meno in relazione ad una controversia che sorgesse poco prima della stipula.
Qualora le Sezioni unite intendessero incentrare il criterio di riparto sulla distinzione tra fase procedimentale e fase negoziale anche a proposito delle concessioni, l’anticipazione della stipula potrebbe parimenti suscitare tendenze espansive del g.o. anche in questo caso. Non è agevole in questo scritto immaginare quante e quali casistiche l’esperienza potrà generare. Sembra però che nel classificare l’una o l’altra, se insorte durante una fase di esecuzione del contratto, potrebbe esser rilevante anche l’argomento aggiuntivo che si tratta di controversia che è comunque nata durante la fase di esecuzione. Si noti infatti che le Sezioni unite, quando si trovano di fronte alla fase di attuazione del contratto, tendono a classificare il rapporto controverso come paritetico in ogni caso, a prescindere dall’eventuale riemersione di poteri autenticamente pubblici e funzionali della stazione appaltante, giungendo così ad esiti che è difficile definire soddisfacenti sul piano sistemico [8].
Potrebbe, infine, questo arretramento del contratto anche incidere sulle vicende che, più o meno correttamente, sono inquadrate nell’ambito dell’autotutela decisoria e che si manifestano in atti di annullamento o revoca dell’aggiudicazione.
Da un lato, la stazione appaltante non può attendere per la stipula del contratto, dall’altro, più facilmente potrebbe vedersi esposta a situazioni nelle quali – magari grazie anche alla conoscenza di circostanze sopravvenute – si apprendono di fatti tali da giustificare un annullamento ovvero si trova costretta a nuove valutazioni che la inducono a propendere per una revoca [9]. In altre parole, potrebbe esser più facile che la stazione appaltante si trovi a dover adottare atti di autotutela pur quando il contratto sia stato già perfezionato. Il che genera non pochi problemi, anche in punto di giurisdizione. L’argomento dell’autotutela merita, comunque, una trattazione a sé, sulla quale torneremo tra un breve.
Se davvero esistesse il “rischio” per il g.a. che le modifiche del d.l. semplificazioni producano una riduzione della sua sfera di giurisdizione – benché manchino, come detto, puntuali appigli ordinamentali perché ciò accada – la risposta ci sembra che debba esser quella di interpretare queste norme in modo da valorizzarne in modo corretto la portata. Si rinvia perciò a quanto detto in precedenza e quindi all’idea di fondo che il funzionamento della riforma passi per un’effettiva trattazione della domanda cautelare.
Qualora il g.a. confermasse invece la prassi della riunione al merito senza la trattazione della domanda cautelare, non potrebbe impedire che nelle more dell’udienza di merito fosse perfezionato il contratto. Sicché la stipula intervenuta in assenza di una decisione giurisdizionale nel processo amministrativo potrebbe vieppiù incentivare un percorso logico che nel frattempo valorizzasse l’avvio di una fase negoziale intesa come fondamento anzitutto cronologico della giurisdizione ordinaria. Il che si unirebbe alla suggestione di un mancato esercizio – questa volta in sede cautelare – dei poteri giurisdizionali affidati dall’ordinamento.
Qualora invece il g.a. preferisse risolvere il problema concedendo una sospensiva di tipo “tecnico”, basata solo sul periculum in mora e senza una vera ponderazione del fumus boni juris, allo scopo di far comunque transitare la controversia all’approdo dell’udienza di merito, i pericoli non sarebbero minori. Per un verso, rimarrebbe la sensazione di una rinuncia all’esercizio dei poteri giurisdizionali che sia la legge nazionale sia la direttiva ricorsi prevedono come adatti al bisogno. Per altro verso, uno scenario di questo tipo – in cui la stazione appaltante non abbia registrato alcuna valutazione positiva del giudice circa le censure dedotte dal ricorrente e ciononostante si veda sospesa l’aggiudicazione pur in costanza di possibili urgenze e scadenze relative alle fonti finanziarie – potrebbe indurre la p.a. a chiedere all’aggiudicatario un’anticipazione della prestazione in via d’urgenza ai sensi dell’art. 32 d. lgs. n. 50 del 2016. Quest’ultima circostanza potrebbe avvalorare, a sua volta, la tendenza a percepire come controversie del tutto “esecutive” e cioè proprie della fase negoziale quelle che insorgessero in tale contesto. L’allargamento – ben possibile in questo tipo di evoluzione – dei casi di ricorso all’anticipata esecuzione non potrebbe che suggerire alle Sezioni unite ad arretrare lo spartiacque della giurisdizione verso l’aggiudicazione, addirittura anticipandola rispetto al contratto. Il che, vale la pena di ripeterlo, non sarebbe affatto auspicabile, non solo per evitare conflitti e revisioni giurisdizionali che non agevolano la certezza del diritto, ma anche perché potrebbe creare scossoni di carattere sistemico. Ad esempio, il g.a. ha avuto modo di osservare recentemente che l’eventuale annullamento d’ufficio della delibera che ha disposto l’anticipazione provvisoria della prestazione dell’aggiudicatario non è un caso tradizionale di autotutela, ma una figura diversa e sottoposto a requisiti più “tenui”, specie quando si tratta di provvedere alla statuizione conseguente alla constatata carenza di requisiti soggettivi che l’urgenza non aveva consentito di accertare preliminarmente. Interpretazioni di questo tipo, per un verso, persuadono del fatto che, pur in costanza di attività di esecuzione delle prestazioni contrattuali, emergono manifestazioni di potere pubblico che si addicono al vaglio del g.a., e, per altro, verso, dimostrano però che questi casi di anticipata esecuzione aprono le porte a “zone grigie” nelle quali non è facile incastonare gli istituti tradizionali del diritto amministrativo.
8. Come si anticipava, uno degli istituti in cui il problema del riparto potrebbe registrare degli scostamenti è quello dell’autotutela decisoria.
Il punto di partenza è il seguente. Se sarà anticipata la stipula del contratto rispetto a quel che accade oggi, è verosimile che un problema di ripensamento da parte della stazione appaltante circa le determinazioni a base dell’aggiudicazione possa più frequentemente sorgere. L’urgenza di pervenire alla conclusione del contratto potrebbe indurre l’amministrazione a non ravvisare alcune pur possibili illegittimità e/o a non percepire con tempestività profili di inopportunità nella cura dell’interesse pubblico. Il che statisticamente farebbe aumentare i casi di annullamento d’ufficio e/o di revoca.
Tale circostanza anzitutto ripropone un problema tradizionale e ancora non risolto in via definitiva dalla giurisprudenza: quello dei rapporti tra l’autotutela decisoria che volesse incidere sull’aggiudicazione (atto terminale della fase procedimentale) e il contratto che nelle more fosse stato stipulato.
Questo problema, a sua volta si scinde in due sottoquestioni. La prima coincide con l’interrogativo se la stazione appaltante (che potrebbe anche essere un organismo di diritto pubblico o un’impresa pubblica o addirittura un privato titolare di diritti di esclusiva nei settori speciali e perciò un soggetto estraneo ad ulteriori collegamenti con l’amministrazione) abbia o no il potere di risolvere unilateralmente il contratto come conseguenza del ritiro dell’aggiudicazione. La seconda riguarda il riparto di giurisdizione e pone il dubbio di quale giudice abbia il potere di conoscere la domanda con la quale si contesta l’atto di autotutela che pretenda di travolgere anche il contratto.
L’Adunanza plenaria con la sentenza n. 14 del 2014 cercò di dare una risposta ad entrambi i quesiti [10]. Osservò che, a proposito degli appalti di servizi e forniture, l’esistenza di un istituto come il recesso avrebbe escluso la possibilità di incidere sul contratto tramite l’adozione di un atto di revoca. L’ordinamento avrebbe previsto una strada puntuale, appartenente al diritto dei contratti e alla logica del diritto privato, ossia appunto il recesso come atto unilaterale di scioglimento dal contratto e ciò avrebbe implicitamente escluso la possibilità di pervenire al medesimo risultato mediante una revoca ex art. 21 quinquies della l. n. 241 del 1990. Sicché la giurisdizione sulla domanda che contestasse la volontà di scioglimento palesata dalla p.a., quale che ne fosse il contenuto, spetterebbe al g.o. L’Adunanza plenaria avrebbe invece lasciato aperta, in qualche misura, la possibilità di adottare l’annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies, dato che questo si collega a vere e proprie illegittimità amministrative, nonché la revoca stessa sia nei rapporti di concessione sia negli appalti di lavori pubblici.
Questo precedente, però non ha sopito il problema, vuoi perché esso stesso occupava, come visto, una dimensione parziale rispetto all’intera fenomenologia dell’autotutela, vuoi perché in altri casi si è tornato a dubitare se l’autotutela potesse davvero anche incidere sui contratti.
Nel frattempo, si è formata anche una giurisprudenza la quale ha ammesso che, nella ben diversa figura degli accordi ex art. 11, l. n. 241 del 1990, l’amministrazione possa assumere atti unilaterali di scioglimento dell’accordo anche al di fuori del caso del recesso per sopravvenuti motivi di pubblico interesse puntualmente previsto dal medesimo art. 11. Così, si è consentito all’amministrazione di adottare degli atti di risoluzione unilaterale dell’accordo per causa di inadempimento del privato, sussumendo in forma provvedimentale e pubblicistica l’istituto della diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 cod. civ. [11]. Sennonché questi precedenti, appunto, riguardavano una figura – quella degli accordi di diritto pubblico – che non è confondibile col vero e proprio contratto. Sicché la forza del vincolo di stabilità contrattuale ex art. 1372 cod. civ. non si faceva sentire in tali casi con la medesima forza che vale per gli appalti. Per questi ultimi la questione si poneva in termini decisamente diversi.
Il problema non è stato neppure definitivamente risolto con l’entrata in vigore del c.d. Codice dei contratti pubblici del 2016 (d. lgs. n. 50 del 2016), che ha introdotto una disposizione come quella dell’art. 108, intitolata alla risoluzione del contratto di appalto e che vede una norma speculare nell’art. 176 per le concessioni [12].
L’art. 108 elenca una lunga serie di cause che abilitano la stazione appaltante a dichiarare unilateralmente la risoluzione ed alcune di esse corrispondono, in verità, ad altrettante cause di illegittimità amministrativa riferibili alla fase procedimentale: ad esempio la circostanza che l’aggiudicatario si sia trovato al momento dell’aggiudicazione dell’appalto in una delle situazioni di cui all’art. 80, comma 1, del codice, che riassume altrettante cause di esclusione, ovvero la costatazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati come riconosciuto dalla Corte di giustizia in un procedimento ai sensi dell’art. 258 TFUE.
Tale ampiezza potrebbe ingenerare il dubbio che il legislatore abbia inteso implicitamente vietare ogni forma di autotutela, sia in forma di revoca sia in forma di annullamento d’ufficio, dato che qui appunto di illegittimità di tratta. Tuttavia, il comma 1-bis dell’art. 108 ha cura di specificare che “nelle ipotesi di cui al comma 1 non si applicano i termini previsti dall’articolo 21 nonies della l. n. 241 del 1990”. Sicché si apre l’interrogativo se questa precisazione sia, appunto, consequenziale alla volontà di sostituire l’annullamento d’ufficio con la risoluzione o se, all’opposto, abbia come presupposto proprio la coesistenza dell’istituto dell’autotutela decisoria, il cui regime – anche sui termini massimi di applicazione – resterebbe tal quale senza trasmettersi al differente fenomeno della risoluzione contrattuale, la precisazione avendo solo lo scopo di mantenere la distinzione di regime tra due istituti comunque entrambi applicabili.
A favore della convivenza di risoluzione ed autotutela, poi, gioca anche il tenore dell’art. 176 che, forse influenzato dalla dimensione tradizionalmente pubblicistica della concessione amministrativa, dice qualcosa di più che non la predetta puntualizzazione sulla non applicazione dei termini dell’art. 21 nonies: contempla espressamente il caso in cui sia stato disposto un annullamento d’ufficio e, quando sia stato dipendente da vizio non imputabile al concessionario, rinvia alla disciplina prevista per il caso di risoluzione per inadempimento dell’amministrazione concedente per quel che attiene ai pagamenti dovuti al concessionario medesimo; menziona, assoggettandola sempre a questa disciplina, anche la revoca della concessione per motivi di pubblico interesse. Dunque, l’art. 176 cita espressamente i due fenomeni dell’autotutela decisoria in relazione ad un contesto in cui il contratto sarebbe stato già stipulato.
Comunque sia, di fronte a tali incertezze si ripropone allora il quesito di fondo: è possibile che i poteri di annullamento d’ufficio e di revoca siano esercitati anche dopo la stipula del contratto e, in tale eventualità, a quale giudice compete di trattare la controversia?
C’è da ricordare che una norma come quella degli artt. 121 e 122 c.p.a. non è prevista nel caso dell’autotutela decisoria. Sicché la possibilità che il g.a. possa incidere sul contratto incontra un ostacolo in più.
E’ pur vero che, prima della direttiva 66/2007/CE, la giurisprudenza amministrativa aveva elaborato in via interpretativa la strada per assicurare piena tutela al ricorrente vittorioso nonostante il contratto, assumendo che il contratto stesso fosse stato colpito da nullità ed utilizzando all’occorrenza il giudizio di ottemperanza per innestarvi una cognizione pregiudiziale e incidenter tantum (senza effetto di giudicato) di siffatta nullità. Ed è comprensibile dunque che possa emergere anche oggi la tentazione di riproporre schemi simili anche di fronte all’esercizio dell’autotutela che, una volta effettuata, verrebbe a privare il contratto della sua base amministrativa, ossia del provvedimento di aggiudicazione.
Però nel caso dell’autotutela l’ordine delle parti e gli effetti del giudicato mutano.
Nei casi in cui il g.a. sperimentò, prima dell’art. 122 c.p.a., la tesi della nullità del contratto si trattava di dare tutela al ricorrente che, da secondo classificato, mirava a travolgere l’altrui aggiudicazione e il contratto che ne era seguito. Il problema della tutela riguardava un interesse pretensivo e l’affermazione della nullità contrattuale era il transito per accedere al bene della vita. Qui invece avremmo un ricorso proposto dall’aggiudicatario contro l’annullamento d’ufficio – un tipico interesse oppositivo – e nel quale l’eventuale giudicato di annullamento avrebbe carattere autoesecutivo: tolto di mezzo l’annullamento o la revoca, l’aggiudicazione riespanderebbe pienamente i suoi effetti e non vi sarebbe ragione, probabilmente, per negare che parimenti efficace sia il contratto. In altre parole, il giudicato amministrativo non avrebbe bisogno di altri passaggi per assicurare una tutela degna del principio di effettività.
Ci si dovrebbe chiedere, però, che cosa ne sia del contratto qualora l’atto di autotutela fosse invece confermato dal g.a.. Potrebbe in una simile contingenza chi ha interesse contrario alla tenuta del contratto adire il giudice per chiedere di accertarne l’inefficacia e/o stimolare l’amministrazione a provvedere? Una possibilità sarebbe quella che un tale interessato esperisca l’azione contro il silenzio ex art. 31 c.p.a. al fine di ottenere che l’amministrazione attivi quei passaggi procedimentali che sarebbero il seguito di una implicita nullità contrattuale dipendente dall’autotutela, ossia l’aggiudicazione al secondo classificato ovvero l’avvio di un nuovo procedimento. Un’altra possibilità è invece quella che l’interessato debba adire il g.o. per l’accertamento di una invalidità contrattuale i cui caratteri sarebbero beninteso tutti da definire sul piano negoziale. Insomma, il paradosso finale è che si potrebbe alla fin fine tornare al tradizionale riparto tra serie procedimentale e serie negoziale e giungere a una divisione della tutela: al g.a. per l’azione demolitoria dell’atto di autotutela decisoria; al g.o. per l’accertamento della validità o invalità/inefficacia del contratto.
Detto ciò, si deve concludere rammentando quel che si diceva nei paragrafi precedenti.
L’anticipazione della stipula del contratto potrebbe ingenerare nel g.o. la tentazione di ampliare la sua giurisdizione a fenomeni di autotutela decisoria che, emergendo in piena fase negoziale, ne suscitassero l’attenzione in nome del riparto rigidamente diviso tra fase procedimentale e fase negoziale. Non mi sembra affatto una soluzione auspicabile, perché si tratterebbe pur sempre di controversie che attengono a forme di esercizio del potere pubblico, ma il modo in cui si sta evolvendo la giurisprudenza delle Sezioni unite non consente di escludere che ciò possa accadere. Una strada non apertamente dichiarata di revisione del riparto, ad esempio, potrebbe essere quella di riqualificare gli atti di autotutela dell’amministrazione, nonostante il nomen juris, quali altrettanti atti di risoluzione ex art. 108 o art. 176 Codice contratti pubblici. Qualcosa di simile, del resto, già è accaduto in alcuni precedenti delle Sezioni unite [13].
9. In tale scenario è anche accaduto che le Sezioni unite, con la citata ordinanza del 18 settembre 2020, abbiano deciso di riproporre – per il tramite della Corte di giustizia cui sono stati sottoposti tre quesiti ai sensi dell’art. 267 TFUE – una soluzione che, in materia di riparto, non soltanto affida alla Cassazione un controllo su un difetto di potere giurisdizionale che si fosse manifestato con un diniego di giurisdizione (i.e. un rifiuto di utilizzare strumenti propri della cognizione processuale che il g.a. dovrebbe in tesi esercitare), ma addirittura configura una carenza di potere giurisdizionale quando il g.a. avesse giudicato in contrasto con norme e/o principi del diritto dell’UE.
Questa tesi postula, in sostanza, che la situazione in cui il g.a. applica una norma di diritto interno che è contraddetta dal diritto UE equivale a quella in cui il giudice non applica la norma vigente e che caratterizza, nel caso di specie, la sua giurisdizione. Il giudice insomma, disapplicando la norma vigente e applicando invece una norma soccombente verso il primato del diritto europeo, non eserciterebbe la sua giurisdizione in modo conforme al sistema [14].
Nell’ordinanza n. 19598 del 2020 il problema è stato ravvisato nell’impostazione processuale del g.a. che nega la legittimazione ad agire contro l’atto di aggiudicazione dell’appalto a chi dalla gara sia stato legittimamente escluso. Secondo il g.a. il non essere partecipante alla gara per via di un’esclusione legittima impedisce di costruire una posizione differenziata tale da fondare una situazione soggettiva tutelabile. Si versa perciò nel novero degli interessi di mero fatto, se non nella contingenza di veri e propri atti emulativi. Secondo le Sezioni unite, invece, sarebbe stato necessario valorizzare l’interesse strumentale alla ripetizione della gara e quindi, in nome dell’effettività della tutela giurisdizionale assicurata dall’ordinamento UE ai diritti che il medesimo ordinamento protegge, garantire la procedibilità della domanda dell’escluso.
Non si può svolgere qui un commento completo dell’ordinanza, che peraltro è già al centro di un dibattito molto ricco.
Alcuni hanno ritenuto che i passaggi che preludono ai tre quesiti rivolti alla Corte di giustizia non siano del tutto persuasivi [15]. Altri hanno manifestato preoccupazione per l’avvio di un conflitto tra giurisdizioni che potrebbe esser di nocumento per l’effettività dell’ordinamento, paventando il rischio di una seconda saga Taricco [16]. Altri ancora hanno in qualche misura spiegato la scelta delle Sezioni unite come una conseguenza di un intervento altrettanto “forte” sul piano dell’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost., da parte della Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 [17].
Qui vorrei solo osservare che la prima e la seconda questione – rispettivamente calibrate sul pericolo che sia stata commessa da parte del Consiglio di Stato una violazione del diritto europeo non sindacabile dalle Sezioni unite ovvero che sia stata colpevolmente non esercitata la facoltà dell’art. 267 TFUE – sembrano ruotare intorno a una premessa non persuasiva.
Preoccuparsi dell’irrimediabilità di un tale errore commesso dal Consiglio di Stato e cercare la strada dell’art. 111, comma 8, Cost. per evitarlo significa porsi in una logica differente dal sindacato di giurisdizione, quale che ne sia la portata. Si tratta infatti di sindacare la violazione del diritto UE o del dovere del giudice di ultima istanza di sollevare la questione pregiudiziale in una situazione nella quale non consti una risposta di diritto “chiara” sul punto controverso [18]. Del resto, parimenti irrimediabile è anche l’errore analogo che fosse commesso dal giudice ordinario quale giudice di ultima istanza; e nonostante ciò non vi sono rimedi che non siano quelli di un’eventuale responsabilità della Repubblica per violazione del diritto dell’UE.
Inoltre, sia concessa una notazione che si pone ai margini dell’analisi giuridica fatta dalle Sezioni unite, ma che si ritiene rilevante perché eccezionali sono i tempi che viviamo e parimenti enormi le sfide da superare. Il contenzioso degli appalti pubblici soffre di molti mali, ad avviso di chi scrive, ma non di una troppo stretta finestra per la legittimazione ad agire. La soluzione che postula l’inammissibilità dell’azione del concorrente escluso sembra essere il frutto di una tradizione che ha soppesato in modo equilibrato gli interessi in gioco. Sicché una ponderazione attenta di tali interessi al fine di stabilire quando una posizione legittimante si sia effettivamente consolidata è esercizio necessario. Quello dell’interpretazione storica ed evolutiva è canone esegetico sicuramente prezioso. Ma in questo campo, contraddistinto da un contenzioso numerosissimo che rende l’Italia un caso probabilmente unico in Europa e che oltretutto si è arricchito di contenuti sempre più lontani dalla dimensione teleologica effettiva delle norme in discussione – il che all’Europa non ci ha di certo avvicinato – l’interpretazione storica potrebbe spingere in direzione esattamente opposta a quella seguita dalle Sezioni unite.
Certamente in direzione opposta va, come abbiamo visto, il decreto semplificazioni, lì dove tende ad assicurare che il procedimento di gara raggiunga il risultato finale dell’affidamento ed esecuzione dell’appalto.
Piuttosto, in un dialogo aperto e continuo come quello in corso il sindacato sulla giurisdizione potrebbe forse orientarsi verso altri lidi.
E’ vero che la sentenza n. 6 del 2018, sembra impedire lo sbocco verso forme di controllo che non restino all’interno di un bel delineato recinto: all’interno del concetto tradizionale di difetto assoluto di giurisdizione (quando il Consiglio di Stato afferma la sua giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione, il c.d. sconfinamento) ovvero dell’opposto caso in cui la giurisdizione venga negata sull’erroneo presupposto che la materia può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (il c.d. arretramento) ovvero ancora del caso di difetto di giurisdizione, quando il g.a. afferma la sua giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione, ordinaria o speciale che sia, o al contrario la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici [19].
L’ordinamento però è un continuum che resta vitale e si evolve. Sicché è all’interno di questa cornice, piuttosto che in un dialogo con la Corte di giustizia, che le Sezioni unite potrebbero mettere a fuoco la loro funzione quale giudice della giurisdizione nel prossimo futuro. L’ordinamento si evolve, appunto, e l’interpretazione storica che ho già richiamato potrà richiedere gli adattamenti del caso anche a proposito dell’art. 111, comma 8, Cost..
Così, è vero che il vizio di “arretramento” è stato declinato nelle parole della Corte costituzionale in relazione a un diniego di giurisdizione in forma “assoluta”. L’aggettivo di una sentenza, però, anche se della Corte costituzionale, in prospettiva avrà il valore che può avere. Sicché sembra a chi scrive che il caso dell’arretramento, suscettibile di esser sindacato dalle Sezioni unite, potrà anche riguardare quei casi – ove mai a verificarsi – nei quali il Consiglio di Stato non avesse visibilmente fatto uso dei suoi poteri di cognizione processuale e dei suoi mezzi istruttori che pure l’ordinamento gli attribuisce per la ricostruzione dei fatti processuali (con il che s’intende, appunto, parlare di accertamenti in punto di fatto e non di controllo sulla discrezionalità tecnica).
Un esempio utile, sempre ad avviso di chi scrive, è quello della giurisdizione esclusiva del g.a. sugli atti sanzionatori delle autorità amministrative indipendenti e soprattutto dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Sono settori molto particolari della giurisdizione amministrativa, nei quali il carattere esclusivo della giurisdizione e la presenza dei diritti soggettivi si unisce ad esigenze di tutela decisamente particolari. Basterà ricordare due dati: (i) il fatto che la giurisprudenza della Corte EDU esige per le più gravi sanzioni amministrative quando la sanzione non sia applicata da un organo avente i tratti di terzietà propri del giudice – e ciò non è per l’Italia, così come per la gran parte degli Stati membri in tutto il campo delle autorità indipendenti – che il successivo processo abbia i tratti della full jurisdiction e che esso sia perciò assimilabile, quanto a garanzie, al processo penale [20]; (ii) il fatto che il provvedimento sanzionatorio di AGCM che sia stato confermato dal g.a. acquista efficacia vincolante verso il giudice civile chiamato a statuire sulle azioni di danni per quanto attiene alla natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, esclusi soltanto il nesso di causalità e l’esistenza del danno e che, proprio per questo, si chieda al g.a. la “verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata” (art. 7, d. lgs. n. 3 del 2017).
10. Torniamo così in conclusione alla questione centrale: il criterio di riparto in materia di contratti pubblici. Abbiamo constatato tre linee di tendenza: una ormai consolidata, che fonda il riparto sulla distinzione tra controversie della fase procedimentale e controversie della fase esecutivo-negoziale; una che risulta dall’ultima giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione e che tende comunque ad ampliare i confini della giurisdizione ordinaria rispetto a tale schema, non senza suscitare alcune perplessità di fondo; una terza che diremmo di espansione “potenziale” del g.o., perché potrebbe dipendere dagli sviluppi – ancora incerti – del decreto semplificazioni, a causa dell’arretramento del tempo di stipula del contratto e del conseguente allargamento della fase negoziale. Su tali tendenze e possibilità ci si è espressi nelle pagine che precedono.
I problemi e le tensioni tra le Corti supreme forse non è casuale siano sorti proprio in questo settore.
In verità, nei casi devoluti alla giurisdizione esclusiva del g.a. e individuati per “blocchi di materie” dopo la sentenza n. 204 del 2004 non sono più emersi rilevantissimi dubbi. Probabilmente questo è accaduto perché il criterio seguito dalla Corte costituzionale si era focalizzato, per circoscrivere la giurisdizione del g.a., sulla manifestazione del potere pubblico e dunque su pretese che, pur se poste al confine della puntuale nozione di interesse legittimo, ne ripetono il nucleo fondante di situazione correlata al corretto esercizio del potere medesimo. Questo tipo di criterio, pur con le comprensibili precisazioni che nei casi concreti sono state fatte, nel complesso possiamo dire che ha funzionato, contribuendo ad un’intesa sostanziale tra le due giurisdizioni. Il tasto toccato dalla sentenza 204 era, evidentemente, quello più adatto ad ordinare le giurisdizioni secondo la sensibilità di ciascuna di esse.
Il criterio di riparto delle controversie sui contratti pubblici invece è nato in modo diverso, come si è spiegato nei paragrafi precedenti: è nato per assicurare che lo stesso g.a. avrebbe giudicato oltre che sui procedimenti di gara condotti da vere e proprie amministrazioni aggiudicatrici anche su quei procedimenti, disciplinati dalle medesime norme, che sono invece guidati da soggetti aventi veste privata, come gli organismi di diritto pubblico o, nei settori speciali, le imprese pubbliche ed i titolari di diritti di esclusiva. I privati non possono adottare atti amministrativi e, di fronte alla vecchia obiezione che senza un provvedimento amministrativo non vi sarebbe stato un interesse legittimo ma solo diritti soggettivi, la soluzione è stata la creazione di un settore di giurisdizione esclusiva. Dopodiché, è sembrato naturale adattare a questa situazione, pur se con una giurisdizione amministrativa ampliata – di necessità – dall’ampliamento degli obblighi di gara imposto dalle direttive, il criterio tradizionale di distinzione tra fase procedimentale e fase negoziale. L’adattamento a questo scenario del criterio di riparto imperniato sulla stipula del contratto, però, più che esser giustificato da una sorta di radicale incompatibilità tra g.o. e fase procedimentale, da una parte, e g.a. e fase negoziale, dall’altra, è stata la naturale conseguenza dell’identità del potere esercitato nell’un caso dalla p.a. in senso formale e, nell’altro caso, da una p.a. intesa in senso sostanziale. La commistione tra interessi legittimi e diritti era dunque solo apparente e ciò che unificava la giurisdizione esclusiva del g.a. era l’omogeneità del potere esercitato dalla stazione appaltante.
Ma intendendo lo spartiacque contrattuale in modo rigido, come impenetrabile barriera tra le due giurisdizioni, non solo si è posta una regola che veniva rapidamente smentita dagli artt. 121 e 122 c.p.a. e dalla direttiva 66/2007/CE in essi recepita, ma si determinava un altro effetto disarmonico. La giurisdizione sui contratti pubblici non veniva infatti più ripartita in funzione dell’effettiva manifestazione di potere pubblico e si distaccava così dal criterio proposto dalla Corte costituzionale nel 2004. La perdita di questa genuina radice ha contribuito allora a veri e propri fraintendimenti e alle menzionate diversità di visione, anche accese come visto, a proposito dell’uno o dell’altro caso controverso.
La rigidità del criterio imperniato sulla distinzione cronologica delle due fasi, ad esempio, ha reso possibile la descritta tendenza a dequotare la giurisdizione esclusiva del g.a. nella fase di esecuzione delle concessioni amministrative attributarie di una veste contrattuale comunque opinabile, mentre in questo tipo di controversie, al di fuori dei casi di giudizi su indennità, canoni o altri corrispettivi, la giurisdizione esclusiva ha radici antiche e basate sulla frequente compenetrazione tra diritti e interessi nel vivo del rapporto. Ed ancora, alcune controversie che implicavano un effettivo sindacato sul potere pubblico sono state, ciononostante, affidate al g.o. per il solo fatto che si erano collocate cronologicamente nella fase negoziale dopo la stipula. Si pensi al caso nel quale la stazione appaltante aveva autorizzato il subentro nel contratto di appalto di un nuovo operatore nel presupposto che questi avesse acquistato dal contraente il ramo di azienda inclusivo del rapporto con la p.a.; e al ricorrente che si doleva del fatto che nessun autentico ramo di azienda era stato trasferito né alcuna istruttoria era stata fatta su questo dalla stazione appaltante, risolvendosi l’autorizzazione in un esercizio illegittimo di potere pubblico e, quindi, in un affidamento diretto non consentito in violazione del divieto di cessione dei contratti di appalto pubblico [21].
In prospettiva futura, dunque, è auspicabile che il criterio di fondo enunciato nella storica sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale possa irrorare anche questo settore di giurisdizione esclusiva.
Tornando a concentrare la giurisdizione del g.a. sulle manifestazioni di potere pubblico si potrebbe ovviare ad eccessi di rigidità del criterio dei due blocchi temporali e raggiungere probabilmente un miglior equilibrio sistemico. Lì dove per equilibrio s’intende un assetto nel quale ciascun giudice, sia il giudice ordinario sia il giudice speciale, possano valorizzare ciascuno i tratti della propria esperienza e della tradizione e quindi le rispettive tecniche di tutela. Il dibattito che abbiamo illustrato, in fondo, dimostra in modo eloquente a parere di chi scrive che tali tecniche restano opportunamente diverse, dato che diversi sono i fenomeni che all’occhio del giudice di volta in volta si palesano.
Fabio Cintioli
[1] Per una sintetica narrazione di questo dibattito e per l’illustrazione dei problemi ricostruttivi che ne derivano, anche in relazione alla direttiva ricorsi, G. GRECO, Coronavirus e appalti (a proposito dell’art. 125 c.p.a.), Riv. it. dir. pubbl. com., 2020, 517 e ss.
[2] In particolare, si richiama il disposto dell’art. 1, comma 1, e 2, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, per il periodo transitorio identificato nel decreto; quindi a regime l’art. 4, comma 1, del d.l. che ha novellato l’art. 32 del d. lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), e commi 2, 3 e 4, recanti le norme processuali, ovverossia il richiamo all’art. 125 e la novella dell’art. 120 c.p.a.
[3] Corte cost., sent. n. 160 del 2019.
[4] Mi sia concesso richiamare, anche per la casistica riportata, il mio Per qualche gara in più, Il labirinto degli appalti pubblici e la ripresa economica, Soveria Mannelli, 2020.
[5] Cfr. Cass. Sez. un., 11 marzo 2020, n. 7005; in senso più restrittivo e aderente ai precedenti della giurisdizione esclusiva in materia di concessioni di beni e di servizi pubblici, Cass. Sez. un., 9 agosto 2018, n. 20682.
[6] Registra e illustra queste sentenze, M. MAZZAMUTO, Le sezioni unite della Cassazione garanti del diritto UE?, in Giur. it. in corso di pubblicazione, cui si rinvia anche per le citazioni dei precedenti.
[7] Propende per la giurisdizione del g.o. Cons. Stato, sez. V, 2 agosto 2019, n. 5498.
[8] Cfr. Cass., Sez. un. 31 luglio 2018, n. 20347. L’autore precisa di avere prestato ufficio di difensore in tale controversia.
[9] Ad esempio, si ricorda che l’art. 163, comma 7, del d. lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici) prevede che nel caso di affidamento di somma urgenza il possesso dei requisiti soggettivi dell’appaltatore debba essere inizialmente affidato alla sola autocertificazione e che le verifiche dell’amministrazione debbano essere effettuate successivamente, condizionando l’esecuzione dei pagamenti ma non la prestazione dell’appaltatore stesso e prevedendo, altresì, nel caso di riscontro negativo dei requisiti, un recesso dal contratto della stazione appaltante. Si parla, dunque, di una dichiarazione di recesso, ma una tale dichiarazione fa seguito alla verifica negativa dei requisiti di partecipazione, vale a dire una determinazione e una statuizione solitamente considerata manifestazione del potere pubblico della stazione appaltante e solitamente attratta nell’orbita della giurisdizione esclusiva del g.a. Il che pone il dubbio se la mera menzione dell’istituto del recesso possa giustificare la devoluzione della controversia al g.o., nonostante l’evidente sua omogeneità funzionale con quelle di appannaggio del g.a. Per un caso nel quale il g.a. ha trattenuto la sua giurisdizione in occasione di una esecuzione anticipata e di un “recesso” della stazione appaltante motivato da inottemperanza ad obblighi di allegazione documentale che avrebbero d’altra parte inciso sul contratto cfr. TAR Campania, sez. VIII, 15 ottobre 2020, n. 4528.
[10] Cons. Stato, Ad. plen., 20 giugno 2014, in Foro it., 2015, III, 673, con nota di A. TRAVI.
[11] Cons. Stato, sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3597, la quale ha giustificato l’esercizio di un potere provvedimentale di risoluzione del rapporto in quanto esercitato in aderenza ai contenuti dell’art. 1454 cod. civ., ed ha anche superato l’obiezione di mancata applicazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 grazie ai caratteri di urgenza offerti dall’istituto civilistico.
[12] Sull’art. 108 v. Cons. Stato, Comm. Speciale, parere n. 855/2016 dell’1 aprile 2016.
[13] Cfr. Cass., Sez. un., 10 gennaio 2019, n. 489.
[14] Con questa ordinanza le Sezioni unite si sono discostate dalla loro più recente posizione, con la quale si mostrava notevole cautela nel dimensionare il proprio sindacato; ad esempio proprio in tema di violazione del diritto UE e/o della mancata rimessione della questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, v. Cass. S.U. 29 dicembre 2017, n. 31226, Id. 4 febbraio 2014, n. 2403. Su questi profili, cfr. F. PATRONI GRIFFI, Eccesso o rifiuto di giurisdizione e sindacato della Corte di cassazione ex art. 111 della Costituzione, Relazione tenuta presso la Corte di cassazione, in www.cortedicassazione.it.
[15] MAZZAMUTO cit.
[16] R. BIN, E’ scoppiata la “terza guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi, 18 novembre 2020.
[17] Cfr. R. VACCARELLA nel suo intervento nel Webinar La questione di giurisdizione – Atti del convegno del 9 dicembre 2020 – Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, in www.giustiziainsieme.it
[18] Per un quadro aggiornato sulla dottrina del c.d. acte clair, cfr. B. MARCHETTI, Il dialogo interrotto tra il Consiglio di Stato francese e la Corte di giustizia UE, in commento a Corte di giustizia UE, sez. V, 4 ottobre 2018, causa C-416/17, in Giorn. dir. amm., 2019, 564 ss.
[19] Corte cost. 18 gennaio 2018, n. 6, in Dir. proc. amm. 2018, 3, 1102 e ss., con nota di A. TRAVI, Un intervento della Corte costituzionale sulla concezione “funzionale” delle questioni di giurisdizione accolta dalla Corte di cassazione.
[20] Corte EDU, Menarini Diagnostics c. Italia, II, 27 settembre 2011 (ric. 43509/08), in Riv. it. dir pubbl. com., 2012, 414; quanto al secondo, Corte EDU, Grande Stevens e altri c. Italia, II, 4 marzo 2014 (ric. 18640/10; 18647/10; 18663/10; 18668/10; 18698/10), in Giur. comm., 2014, II, 543, nonché in Giornale dir. amm. 2014, 1053, con nota di M. ALLENA, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi CEDU. Mi sia concesso rinviare al mio Giusto processo, CEDU e sanzioni antitrust, Dir. proc. amm., 2015, 507 e ss., anche per le ulteriori citazioni. Ancor più recentemente, cfr. F. GOISIS, La Full jurisdiction sulle sanzioni amministrative: continuità della funzione sanzionatoria v. separazione dei poteri, Dir. amm., 2018, 1 e ss.
[21] Cfr. Cass., Sez. un. 31 luglio 2018, n. 20347 cit.