Con il presente documento l’Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti intende proporre una sintesi della disciplina attuale dell’affidamento degli incarichi legali, redatta attraverso poche indicazioni, semplici e operative, che possano essere seguite dalle P.A.
1. Un’amministrazione deve, prima di tutto, decidere se vuole affidare un appalto o un incarico di difesa o assistenza, perché sono due cose diverse.
La distinzione tra incarico legale e appalto di servizi legali è fondamentale.
Un inquadramento dei due concetti è stato dato dalla ormai “storica” – ma tuttora attuale – sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, 2730 dell’11.5.2012. Perché ci sia un appalto, deve esserci un “quid pluris” rispetto a un singolo incarico di patrocinio o di assistenza. Insomma: è appalto quando ha ad oggetto un servizio legale prestato per un determinato arco temporale e per un determinato corrispettivo. E il “quid pluris” sta nel fatto che la prestazione di patrocinio o di assistenza si inserisce in un quadro più ampio, divenendo modalità di un servizio più complesso e articolato da prestare all’amministrazione.
La distinzione tracciata dalla sentenza 2730 cit. risulta ancora più netta dopo il decreto legislativo 50 del 2016: gli appalti di servizi legali sono quelli di cui all’allegato IX del nuovo codice, mentre i servizi legali individuati all’art. 17, lett. d) sono espressamente esclusi dal codice.
A chiarire tale distinzione alla stregua del nuovo codice è soprattutto il parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato numero 2017 del 3.8.2018 (che sul punto non presenta sostanziali differenze rispetto alla precedente sentenza del Consiglio di Stato 2730 del 2012).
Sono due modelli contrattuali diversi, dunque. E l’amministrazione può avere necessità di ricorrere all’uno o all’altro dei due. Se un’amministrazione decide di dar corso ad un appalto di servizi legali, è perché le sue esigenze lo giustificano. Perché, ad esempio, intende affidare l’intero contenzioso di suo interesse per una durata predeterminata.
Tali conclusioni sono espressamente condivise anche dalle linee guida 12 del 2018 dell’ANAC, che confermano come l’incarico legale affidato per un’esigenza puntuale ed episodica costituisca un contratto d’opera intellettuale e non un appalto.
E’ dunque necessario muovere da una domanda di base: che cosa cerca l’amministrazione? Un avvocato cui dare un singolo incarico, o un appaltatore di servizi legali?
2. Per dare un incarico legale, un’amministrazione può fare una gara oppure no: dipende da ciò che in concreto ritiene opportuno.
Il punto più problematico è questo: se esista o no un obbligo di fare una “gara” – genericamente intesa, ricomprendendovi ogni confronto comparativo – quando si affida un singolo incarico legale, al di fuori dei casi di appalto.
La possibilità dell’affidamento diretto a un determinato professionista è ammessa dalle linee guida 12/2018 dell’ANAC “solo in presenza di specifiche ragioni logico-motivazionali che devono essere espressamente illustrate dalla stazione appaltante nella determina a contrarre.”
Tali affermazioni dell’ANAC derivano da un presupposto: l’applicabilità dei generali principi posti dall’articolo 4 del codice dei contratti pubblici anche ai servizi legali esclusi di cui all’articolo 17 lett. d). E’ dai principi dell’articolo 4 che l’ANAC pretende di “declinare” tutta una serie di indicazioni e regole per l’affidamento degli incarichi legali.
Non si intende qui esaminare la correttezza di tale impostazione. Si intende guardare ai materiali normativi e giurisprudenziali disponibili e fondare su di essi alcune indicazioni operative alle amministrazioni.
E’ in questa prospettiva che si delinea una conclusione precisa: la possibilità di non procedere a una “gara” per l’affidamento di incarichi legali è una possibilità ordinaria.
Fare una “gara” tra legali è sempre difficile. E sono numerose le ipotesi in cui farlo diventa estremamente difficile o finanche impossibile. La questione è già chiaramente espressa nella sentenza del Consiglio di Stato 2730 del 2012: l’iter del giudizio è aleatorio, gli aspetti delle prestazioni da fornire non sono predeterminabili, mancano insomma le basi oggettive per fissare i criteri di valutazione necessari.
Inoltre, come pure rileva la sentenza, l’attività del professionista si colloca in un contesto che è quello dell’amministrazione della giustizia, al di fuori del campo regolato dai contratti pubblici.
Le questioni sollevate non sono evidentemente legate al codice previgente.
E la definitiva conferma della loro rilevanza si ha con la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 giugno 2019 (C 264/2018). Definitiva sia per la chiarezza dei contenuti, sia perché le sentenze interpretative della Corte di Giustizia hanno una portata generale e prevalente sulle disposizioni incompatibili degli ordinamenti interni.
Afferma la Corte che gli incarichi legali sono esclusi dalla normativa appaltistica generale – ai sensi dell’art. 10, lettera d), I e II) della direttiva 24/2014, corrispondente alle ipotesi dell’articolo 17 d) del codice dei contratti pubblici – in quanto diversi da ogni altro contratto, perché le relative prestazioni possono essere rese “solo nell’ambito di un rapporto intuitu personae tra l’avvocato e il suo cliente, caratterizzato dalla massima riservatezza“.
All’intuitus personae la Corte ricollega la libera scelta del difensore e la fiducia tra cliente e avvocato, e ne ricava la difficoltà di descrivere oggettivamente le qualità attese dal legale incaricato.
E alla riservatezza nel rapporto tra avvocato e cliente la Corte ricollega la salvaguardia del pieno esercizio dei diritti di difesa e la possibilità di rivolgersi con piena libertà al proprio avvocato, che potrebbe essere minacciata dal dover precisare le condizioni di attribuzione dell’incarico.
E poi, rileva la Corte, c’è un ulteriore profilo. I servizi legali possono partecipare, “direttamente o indirettamente, all’esercizio di pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche“: ciò che pure li rende incomparabili con ogni altro servizio.
Insomma: molti sono i profili in gioco e i valori coinvolti.
Naturalmente, un’amministrazione ben può fare una “gara” – nel senso di comparare tra loro più professionisti per individuare il soggetto da incaricare – se ritiene che vi siano ragioni e condizioni che rendano opportuno farla (e se ritiene che – nella fattispecie concreta – il modo in cui concretamente viene effettuata la comparazione non leda alcuno dei valori ora ricordati).
3. Deve esserci in ogni caso la reciproca fiducia.
E’ un rapporto speciale, quello tra avvocato e cliente, anche quando il cliente è una pubblica amministrazione. E la fiducia è, semplicemente, il fondamento di questo rapporto. Se viene meno la fiducia, viene meno il rapporto. Il che vuol dire che se la fiducia manca sin dall’inizio, allora quel rapporto non deve neppure sorgere.
Non è facile descrivere oggettivamente cosa sia la fiducia. Ancor meno facile è dire come si configuri la fiducia (e tra chi debba intercorrere) quando il rapporto sia con un soggetto collettivo caratterizzato da precise regole del suo operare, qual è un ente pubblico. E in realtà non tutti i contenziosi e le vertenze in cui un’amministrazione si ritrovi coinvolta hanno bisogno dello stesso grado di fiducia. Ma il sistema non può ignorare che quello è il fondamento del rapporto.
L’esistenza della fiducia non richiede, da parte dell’amministrazione che conferisce un incarico, una motivazione specifica fondata su criteri oggettivi; ma certo la fiducia non può essere in contrasto con dati oggettivi. Non può cioè giustificare delle scelte irragionevoli.
Anche la scelta del legale effettuata con gara non può prescindere dalla fiducia.
Ed è giustificato che un’amministrazione cambi il proprio avvocato se ciò avvenga quale conseguenza del venir meno di un’effettiva “sintonia” o di carattere generale o sulla specifica vertenza.
4. Anche se non viene fatta una gara, vanno rispettati i principi dell’azione amministrativa.
Un’amministrazione deve comunque rispettare i principi generali dell’azione amministrativa, cioè quelli dell’articolo 1 della legge 241, e rendere le sue scelte verificabili sotto il profilo della congruità.
Un simile obbligo finisce quasi per privare di rilievo pratico la questione dell’applicabilità o meno dei principi di cui all’articolo 4 del codice dei contratti pubblici, che sono in larga parte coincidenti con quelli dell’articolo 1 della legge 241.
Insomma, è necessaria un’attività amministrativa procedimentalizzata, come si afferma nel parere del Consiglio di Stato 2017/2018. Ciò si concreta – anche in mancanza di un confronto comparativo tra più legali – nell’acquisizione del curriculum del professionista per verificarne la pertinenza e l’adeguatezza all’incarico da conferire, nella verifica che non vi siano incompatibilità, nell’acquisizione e nella valutazione del preventivo.
5. Se viene fatta una gara, è una gara.
Il convincimento diffuso di dover comunque “fare una gara” – anche soltanto nella forma dell’acquisizione di più preventivi – spinge talvolta le amministrazioni a contattare i legali con modalità e approcci che paiono finalizzati a una scelta predeterminata.
In modi altrettanto discutibili possono svolgersi poi anche le gare vere e proprie, caratterizzate talora dalla prefissazione di criteri “sartoriali”, da valutazioni dei curricula palesemente ingiustificate, da procedure interrotte senza ragione, da graduatorie mai rese disponibili.
La commistione tra volontà di effettuare una scelta intuitu personae e la percezione di doversi comunque cautelare da censure ed esposti può generare delle fattispecie penalmente rilevanti.
Se viene fatta una gara, anche quando non è necessaria, è una gara, con tutte le conseguenze.
6. Devono essere rispettati l’equo compenso e i parametri.
Non è facile fare una gara tra legali, perché non è facile individuare quali siano i criteri da considerare: ognuno solleva problemi, e al tempo stesso può non essere pertinente.
Considerare l’aspetto economico è già di per sè riduttivo, perché il dato economico non può essere da solo idoneo all’instaurazione di un rapporto fiduciario. E, comunque, anche qui ci sono dei limiti precisi.
L’art. 19 quaterdecies, co. 3, del d.l. 16.10.2017 n. 148, conv. l. 4.12.2017 n. 172 stabilisce che la pubblica amministrazione “garantisce il principio dell’equo compenso”, nel rapporto con la generalità dei professionisti: il che, evidentemente, significa che deve farne applicazione.
L’art. 13 bis della legge professionale forense n. 247/2012 stabilisce che l’equo compenso è quello “conforme” ai parametri. Se si è dentro ai parametri, in altre parole, il compenso deve ritenersi non iniquo. E comunque sotto ai limiti non si può andare: il d.m 10.3.2014 n. 55, quale modificato dal d.m 8.3.2018 n. 37, disciplina i parametri prevedendo in particolare l’inderogabilità dei minimi.
La mancata applicazione del combinato disposto di cui alla disciplina dell’equo compenso ed alla modificata disciplina dei parametri determina quindi violazione di legge (oltre che – da altro punto di vista – potendo in ipotesi integrare un comportamento di rilevanza disciplinare per il legale coinvolto).
Dunque, la disciplina legislativa dell’equo compenso quale risultante dalle norme citate condiziona ogni procedura di scelta dell’avvocato. E c’è un limite economico inderogabile negli affidamenti da parte di un’amministrazione.
Di ciò vi è un espresso riconoscimento nelle stesse linee guida ANAC n. 12/2018, in particolare laddove si afferma che le amministrazioni “sono tenute ad accertare la congruità e l’equità del compenso, nel rispetto dei parametri stabiliti da ultimo con decreto ministeriale 8 marzo 2018, n. 37”; e che “il risparmio di spesa non è il criterio di guida nella scelta che deve compiere l’amministrazione”.
E della nuova disciplina dell’equo compenso non può non tener conto la Corte dei conti, chiamata a conoscere delle ipotesi in cui sussiste un effettivo danno erariale. Applicare ciò che è previsto per legge non può certo integrare danno erariale, né la giurisdizione contabile può, evidentemente, indurre all’“iniquità”.
7. Va considerato che ogni pratica fa storia a sè.
Tolte le cause veramente seriali (rare), ogni causa – e ogni questione che possa portare a una causa – ha proprie particolari ragioni e caratteristiche. Non solo le situazioni sono sempre diverse le une dalle altre; ma la stessa situazione può essere diversa a seconda del momento in cui si pone (oltreché a seconda di chi valuti, in particolare all’interno degli enti pubblici elettivi, gli interessi in gioco). Ed è necessario che le forme delle procedure di affidamento siano funzionali a come l’amministrazione valuta in concreto la fattispecie.
Ciò che è già stato fatto non deve necessariamente continuare a essere fatto, o essere fatto nello stesso modo: la coerenza non è un valore, se le situazioni sono diverse.
Né la rotazione dei legali incaricati è una regola, se deve essere garantita la libertà di scelta nel difendersi. Non è la necessità della rotazione, ma la necessità di considerare le situazioni concrete a dover orientare le scelte dell’ente.
8. Può essere fatto un elenco, oppure no, ma non è opportuno farlo gestire da altri.
Dai principi generali del codice dei contratti pubblici (posti dall’art. 4), l’ANAC ricava una serie di istruzioni comportamentali agli enti pubblici. Tra le quali, fare un elenco di avvocati.
Ma quello dell’ANAC sulla predisposizione degli elenchi è un “suggerimento” (perché tale è per il modo stesso in cui è formulato, con il riferimento alle “migliori pratiche“). Dunque, da un lato non può essere assolutizzato; e, d’altro lato, non sembra risolvere granché i problemi, e ne crea di nuovi.
In particolare, gli elenchi – come intesi dall’ANAC – scontano una contraddizione di fondo, perché dovrebbero essere al contempo aperti alle richieste di inserimento, ma anche ristretti, limitati a coloro che soddisfino al meglio le esigenze dell’amministrazione.
Ma, soprattutto, gli elenchi non forniscono di per sè una risposta alla domanda su come scegliere tra gli avvocati inseriti in essi; ed anzi, non possono neppure precludere l’individuazione di un professionista esterno all’elenco.
In base a tali considerazioni è forte il dubbio che la redazione, l’aggiornamento, la gestione di un elenco di avvocati per ogni amministrazione comporti una gran mole di adempimenti “di sistema” – sia per le amministrazioni, sia per gli avvocati – senza una corrispondente utilità.
Ma, poiché gli elenchi non sono un obbligo, ogni singola amministrazione potrà fare le sue valutazioni, comparare costi e benefici, e se ritiene che si tratti di un adempimento non proporzionato agli obiettivi, ben potrà prescinderne.
Quel che non è opportuno fare, è delegare a soggetti estranei all’amministrazione – in specie a operatori commerciali – un’attività di tenuta, di gestione e di utilizzo di tali elenchi.
Ferma la possibilità per ogni amministrazione di acquisire sul mercato i servizi che ritiene utili nella gestione delle proprie funzioni, la situazione che si determina nelle ipotesi ora accennate è delicata.
Da un lato, l’operatore commerciale che fornisca questo tipo di servizi ha un oggettivo interesse a enfatizzarne il ruolo, e dunque a enfatizzare la doverosità e gravosità degli adempimenti procedimentali cui l’amministrazione è sottoposta. E, d’altro lato, l’inserimento di un soggetto terzo nel rapporto tra l’ente e il legale da incaricare può presentare margini di rischio nell’inquadramento della fattispecie.
9. Si deve far attenzione alle insidie di un mercato complicato.
Il “mercato” dei servizi legali è ampio, non ancora suddiviso in specializzazioni, ed esposto alle più varie forme di promozione e di autopromozione.
E’ evidente la delicatezza di quelle situazioni in cui, per farsi coadiuvare nella ricerca di un legale, le amministrazioni si rivolgano ad operatori commerciali che vengano incaricati, con un vero e proprio appalto di servizi, di fornire assistenza e addirittura di gestire la selezione.
Sotto altro profilo, le amministrazioni non devono chiedere ciò che non può essere dato: non può essere richiesto al legale, per partecipare ad una gara, che violi precetti quali l’articolo 28 del codice deontologico forense in tema di riserbo e segreto professionale ed i connessi principi generali di segretezza e riservatezza di cui all’art. 13 del codice deontologico forense. Né può finire per darsi incentivo a prassi di divulgazione di notizie sulla propria clientela da parte del professionista, ciò che pure può integrare una condotta indebita ai sensi dell’articolo 35 del codice deontologico forense.
10. Va sempre tenuto presente con chi e con che cosa si ha a che fare.
Il rapporto con un avvocato per esserne difesi o consigliati in vista di un possibile contenzioso non è un rapporto contrattuale come gli altri.
Vi è la correlazione dell’attività dell’avvocato ai diritti inviolabili di difesa ex art. 24 della Costituzione. Ciò è ben chiaro, con riferimento alla difesa in giudizio. Ma vale anche per un’attività tipica dell’avvocato quale la consulenza e l’assistenza legale ove connessa all’attività giurisdizionale (cfr. art. 2 co. 6 della legge 247).
Quel che merita di essere ulteriormente rilevato è che – su questo tema – vengono in gioco la difesa e l’assistenza dell’amministrazione pubblica. E l’attività dell’avvocato incaricato da una pubblica amministrazione in qualche misura viene a trovarsi connessa all’esercizio dei poteri pubblici, quando sia l’esercizio di tali poteri ad essere coinvolto nel contenzioso.
Vengono in considerazione, dunque, altri principi costituzionali, espressi in particolare dall’articolo 113 Cost. – che, nel prevedere che tutti gli atti amministrativi siano impugnabili, evidentemente impone che l’amministrazione sia posta in grado di difenderli – e dall’art. 97 Cost., nel suo riferimento ai principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione.
L’attività difensiva e quella di consulenza si riflettono sull’agire amministrativo e sulle sue regole fondamentali e in realtà sulle basi stesse dello Stato di diritto.
Bisogna guardare le cose anche da questa prospettiva. Ed è ciò che ha fatto la Corte di Giustizia nella citata sentenza 6/6/2019: in essa l’argomentazione si basa sulla libera scelta del difensore, sulla fiducia che il cliente deve avere nell’avvocato, sulla salvaguardia del pieno diritto alla difesa, sulla tutela della possibilità di rivolgersi in piena libertà al proprio avvocato.
L’amministrazione che conferisce un incarico non ha a che fare solo con l’avvocato e con i valori costituzionali cui la funzione dell’avvocato risponde. Ha a che fare con sè stessa.
*Comunicazione n. 1/2020 approvata dal Consiglio Direttivo dell’Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti il 9.1.2020