È stata salutata da tutti come un’autentica conquista civile la campagna sferrata una trentina d’anni fa contro le “barriere architettoniche”, quelli “abbellimenti” ritenuti indispensabili per assicurare la monumentalità di edifici “importanti”: palazzi pubblici, Ville, Chiese & simili (Palladio ne sapeva certo qualcosa!); memorabile il Duomo di Schio, eretto sul colle più alto del centro cittadino con una monumentale scalinata d’un centinaio di gradini, onde -nella teologia misticheggiante del prete del tempo- chi vi saliva si sentisse più vicino a Dio, senza ovviamente pensare -quel sant’uomo- all’invalido, che, non potendo entrare in Chiesa, era costretto vivere “lontano” dal Dio del “santo Prete”.

La vittoria delle barriere architettoniche è stata decretata dalla legge n. 13/1988 seguita dal Regolamento di esecuzione, il DM 236/1989. Può essere utile anche ai fini della presente nota la definizione che ne dà il DPR 503/1996; “per barriere architettoniche s’intendono gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea”: definizione da tener ben presente da chi avrà la tenacia di seguirci fino in fondo!


Le barriere giuridiche

Nel campo del diritto è in atto una vera corsa al tecnicismo normativo: per averne un’idea anche approssimativa si dia un’occhiata (appena un’occhiata per non farsi male) al c.d. Codice dell’appalto pubblico, che, con i suoi 359 articoli, disciplina nel più esasperato dettaglio ogni più minuto passaggio del complessissimo procedimento, al punto d’aver indotto chi scrive a lanciare una sfida al mondo dei giuristi, se sia accaduto a qualcuno degli operatori di materia di esaminare a fini gravatori un qualsivoglia procedimento d’appalto senza rilevare qualche “menda”, la violazione d’una qualche “normetta”, sufficiente, se ben giocata, per mandarlo all’aria.

Con un lato ben positivo (anzi positivissimo) per gli editori, che sfornano fior di commentari articolo per articolo (il Giuffrè del 2011 in ben 2688 pagine), di sicuro successo editoriale, con puntuali -puntualissime!- riedizioni ad ogni pur minuta riformuccia (e chi del mestiere potrebbe prescinderne?!).

E pensare che prima dell’alluvione normativa dell’ultimo ventennio (sempre in materia di appalto pubblico) l’intero procedimento dell’appalto era regolato dal RD. 25 maggio 1865 n. 350, modificato col RD 8 febbraio 1923, n. 422; il tutto con un insieme di disposizioni d’una cinquantina di articoli comprensibili ad ogni operatore di materia.

A tutto ciò s’aggiunga -con ruolo complessivamente dirompente- la riforma largamente in atto di (forse radicale) riforma dell’Avvocatura, con l’ufficializzazione delle specializzazioni di materia tendenti a creare veri sbarramenti all’interno dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, con conseguente limitazione della stessa legittimazione professionale a singole materie di contenzioso. Tutto questo attiene ai problemi dell’Avvocatura, ma diventa fonte di autentiche barriere giuridiche in quella “materia” necessariamente promiscua, ovviamente onnivalente per l’intero ordinamento, ch’è il magistero penale: il magistrato penale che si trova a dover giudicare, magari in forma monocratica, un delitto proprio del p. u. contro la PA in materia esasperatamente specialistica (si pensi ai reati “ecologici”, ambientali o di tecnica procedimentale), dove per valutare compiutamente una fattispecie delittuosa può esser necessaria un’impostazione culturale di largo spettro ed una versatilità di materia d’esasperata specializzazione: una vera barriera giuridica, ch’è assolutamente impossibile che il singolo operatore possa superare nei tempi funzionali consentitigli dagl’impegni d’ufficio (donde il dilagare dei miracoli di Santa Prescrizione).

Ecco il tema da svolgere: il superamento delle barriere giuridiche per il corretto esercizio della giurisdizione nella cognizione nei delitti propri nelle materie tecniche specialistiche.

I rimedi non possono essere introdotti con provvedimenti normativi come avvenne per le barriere architettoniche, ma devono entrare nel comportamento professionale dei protagonisti della giurisdizione: gli Avvocati, che “montano le cause”, vestendo dei caratteri processuali le pretese del cittadino che “chiede giustizia”, e i Giudici, che adempiono (è il termine usato dall’art. 54.2 Cost.) la funzione giurisdizionale. Ovviamente, “a monte”, ambedue le categorie di operatori dovrebbero -tramite i rispettivi rappresentanti istituzionali- agire presso il Legislatore, attraverso gli Uffici Legislativi dei vari Dicasteri, per indurli ad un diverso modo di “fare le leggi”: la barbarie dei 1400 commi d’un unico articolo non deve ripetersi mai più!

****

Vengono qui esaminati due “casi” di macroscopica erroneità di decisioni giurisdizionali in materia tecnica procedimentale ed urbanistico edilizia, che ad minimo d’apprendimento appena specialistico (per vero ben elementare e “di soglia”) avrebbero imposto soluzione esattamente contraria.

  1. in materia di delitto proprio del p.u. (art. 323 c.p.) – Tribunale di Padova.

= Quadro d’azione: Consiglio Comunale (in seguito CC) d’un Comune medio-piccolo;

= all’ordine del giorno c’era il seguente argomento: premesso che d’un edificio abusivo l’ordinanza che ne aveva disposto l’abbattimento non era stata ottemperata e s’era quindi inverato il trasferimento ope legis dell’edificio al Comune (“confisca”), il CC era chiamato a decidere sulla sorte dell’edificio “diventato del Comune”: tenerselo com’è, per destinarlo a funzione pubblica o abbatterlo a spese dell’abusivista?

Il “caso” era un tantino complicato: l’abuso era stato attuato dal proprietario d’allora, che aveva venduto a Caio l’edificio abusivo; dove Caio non era l’abusivista, ma soltanto l’avente causa dell’abusivista. Caio aveva impugnato l’ordinanza al TAR, ma il ricorso era stato dichiarato inammissibile per vizio procedurale; dunque l’abuso c’era e andava sanzionato; ferma ovviamente l’azione civile di Caio per nullità del contratto contro il venditore truffaldino.

In CC sedeva un nipote ex fratre dell’abusivista vero (il costruttore-venditore), autorevole esponente della maggioranza, che, come stretto parente di persona interessata al tema, aveva dovere astenersi dalla votazione. In relazione all’infortunio processuale al TAR, che aveva messo fuori gioco Io sventurato acquirente (Caio), la minoranza consigliare aveva mosso una vivace “battaglia politica” in favore della sanatoria, che Caio aveva prospettato come anche giuridicamente fattibile. L’oggetto vero dello scontro in CC era pertanto la mozione della minoranza, solo occasionata dalla vicenda “abuso edilizio”, ed il capo della maggioranza -il parente del venditore, il vero abusivista- era impegnato in prima persona per vincere la partita politica.

Assai vivace la discussione, ad epilogo della quale, la minoranza consigliare dichiarò d’uscire dall’aula per protesta della mancata approvazione della sua proposta di sanatoria; a tal punto il Consigliere-parente, anziché astenersi, dichiarò a verbale: “che voterà contro (la mozione della minoranza) nonostante nella vicenda sia implicata anche una persona a lui vicina, un parente e che il problema poteva magari essere risolto, nella legalità, all’epoca dalla passata Amministrazione, ma ciò purtroppo per i privati non è stato fatto (sic).

Lo sventurato Caio sporse denuncia alla Procura della Repubblica per il delitto dell’art. 323 cod. pen., per mancata astensione e lo zelante Segretario del Comune, rispondendo alla richiesta di chiarimenti della Procura, rilevò (ecco la barriera) che, uscita la minoranza, la delibera venne votata da tutti e otto i presenti (compreso il parente), per cui, se anche il consigliere-parente si fosse assentato o astenuto, ugualmente la delibera sarebbe stata votata all’unanimità da tutt’i sette consiglieri presenti e votanti: nessuna irregolarità amministrativa quindi!

La barriera ha funzionato perfettamente: questa l’istanza del PM diretta al GIP: “pur essendo coinvolto in una certa misura un prossimo congiunto (dell’abusivista venditore), la vicenda ha interessato in prevalenza il nuovo proprietario dell’immobile e, anche qualora il consigliere non avesse partecipato al voto, la sua assenza non avrebbe modificato l’esito della votazione, visto che gli 8 consiglieri presenti hanno votato tutti favorevolmente (gli altri 3 consiglieri presenti non hanno partecipato alla votazione lasciando i banchi del consiglio)”.

Per incredibile che possa apparire seguì il decreto di archiviazione, visti gli artt. 409 e 411 cpp.

Qui la barriera tecnica -il tecnicismo specialistico della disciplina dello svolgimento dei Consigli Comunali- è null’altro che una tela di ragno; regna soltanto la neghittosità professionale (come dire una ben consolidata ignoranza tecnica) del PM, unita alla vera e propria violazione del più elementare dovere d’ufficio, che, per un Magistrato penale, è rappresentato dall’onere di almeno leggersi il codice penale e l’art. 323 cod. pen. che punisce il p. u. che, nell’esercizio della sua funzione d’istituto (che l’art. 54.2 della Costituzione gl’impone di adempiere “con disciplina e onore”), non si legge almeno la norma incriminatrice. Il delitto consiste nel fatto che il componente d’un organo collegiale amministrativo, chiamato a votare nell’esercizio della funzione d’istituto, “omette di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto”: qui c’è in atti la confessione espressa di voler violare l’obbligo di astensione, pur dichiarandone esistente il presupposto di legge.

Un comportamento, quello del Tribunale (PM e GIP), senza disciplina e senza onore!

  1. Illecito edilizio – costruzione di edificio su permesso di costruire certamente illegittimo – Tribunale di Vicenza.

I dati sono tratti dal rapporto alla Procura della Repubblica del Corpo Forestale dello Stato e dalla richiesta del PM al GIP di archiviazione

Tizio, in forza di permesso di costruire (PdC) aveva dato mano alla costruzione d’un grande edificio nell’ambito/attuazione d’una lottizzazione (PdL) regolarmente approvata e convenzionata, che prevedeva la realizzazione di importanti opere di urbanizzazione, con la clausola che gli edifici sarebbero stati realizzabili solo dopo la consegna al Comune delle opere di urbanizzazione complete e funzionanti. Il solito confinante accidioso s’avvide che il PdC era stato rilasciato e i relativi lavori di costruzione dell’edificio avviati quando le opere di urbanizzazione erano state realizzate solo per la metà circa. Evidente l’illegittimità del PdC e quindi l’abusività del cantiere. Denuncia alla Procura ed attesa dei provvedimenti interdittivi della prosecuzione dei lavori di realizzazione di quello ch’era inequivocabilmente un abuso edilizio. E qui intervenne niente meno che il grande Calamandrei ad insegnare che”la legge è uguale per tutti, ma per alcuni è più uguale”. Evidentemente per “loro” (UTC del Comune, Lottizzante e costruttore) la norma urbanistica era “più uguale”. La Procura nominò un CTU per appurare i fatti; questi se la prese comoda, mentre ovviamente i lavori in cantiere proseguivano “regolarmente”. Alla fine, dopo svariate vicissitudini, la perizia penale venne acquisita ed accertò che effettivamente alla data del rilascio del PdC le opere di urbanizzazione erano ben lungi dall’essere ultimate; quindi PdC era certamente illegittimo; ma l’edificio era ormai ultimato. Quid juris?

Sotto un certo profilo, il fatto d’aver “lasciato fare” (l’edificio in quella situazione di sicura illegalità) senza intanto e tosto impedirne la continuazione potrebbe chiamare in causa anche personalmente lo stesso titolare dell’azione penale (PM), ai sensi dell’art. 40 cod. pen., secondo cui ”non impedire un evento, che si l’obbligo giuridico d’impedire, equivale a cagionarlo”. Colpa dello smemorato perito? Ma intanto il calendario corre e l’edificio cresce.

Ecco il passaggio centrale della richiesta di archiviazione in sede penale (Comune silente; TAR e AGO nemmeno scomodati; edificio ultimato; opere di urbanizzazione ancora incompiute); dove il salvagente è rappresentato nientemeno che da una sentenza della Corte di cassazione a sezioni unite penali, secondo cui il PdC, anche se illegittimo, “copre l’edificare”, per cui l’aver edificato non integra il reato di costruzione abusiva perché “il reato di costruzione in assenza della concessione…non è configurabile nel caso che la concessione rilasciata prima dell’inizio dei lavori sia illegittima” (a meno che “il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue e quindi non sia riferibile alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri”; circostanze, come si è detto, non ravvisabili nel caso di specie)”.

Nemmeno sfiorato -quel prode PM- dal dubbio che il Capo dell’UTC0, in sede di istruttoria dell’istanza di quel PdC, in quel PdL, le cui opere di urbanizzazione erano ben lungi dall’essere completate ed il cui completamento e trasferimento al Comune erano conditio sine qua non per il rilascio del PdC, abbia commesso il delitto di abuso d’ufficio (art 323 cod. pen.), perché nel corso dell’istruttoria, che non può non aver compiuto, non poteva non essersi accorto dello stato delle opere di urbanizzazione. E come potè -sempre quel prode PM- almeno non sospettare che quel rilascio di quel PdC, in quelle situazioni urbanistiche, non poteva che essere frutto di abuso d’ufficio del Capo dell’UTC?

E se così è, come si può invocare quel precedente della Cass. ss. uu., senz’aver verificato l’esistenza del presupposto essenziale per la “copertura procedimentale” di quel costruire, ch’è l’escludere che “il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia”?!

Istanza di archiviazione ovviamente accolta.

L’archiviazione istruttoria è la morte del processo penale ed è legge di natura prima che norma giuridica che mors omnia solvit: copre tutto! E veramente il Calamandrei copre tutto: evidentemente PM, Capo dell’UTC, costruttore e lottizzatore erano tutti “più uguali”!

Ivone Cacciavillani

image_pdfStampa in PDF