Un’occasione mancata, ma sono salve la legge sul Piano Casa e in particolare la modifica sull’altezza introdotta con L.R. 32/2013.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 30/2020, depositata il 21.02.2020 (e riportata in calce), è stata accolta favorevolmente dalla maggior parte delle Amministrazioni Comunali del Veneto e, in particolare, dalla Regione. Infatti, un’eventuale pronuncia negativa avrebbe messo a repentaglio molte situazioni venutesi a creare nel Veneto con l’applicazione del Piano Casa, specie nel periodo intercorrente tra il 2013 e il 2019, cioè nel periodo successivo all’introduzione del comma 8bis dell’art. 9 della L.R. n. 14 del 2009 (cfr. L.R. del 29 novembre 2013, n. 32).
In realtà, a parere dello scrivente, tale sentenza costituisce un’occasione mancata nel senso che è stata persa la possibilità di pronunciarsi su un argomento “nuovo” e interessante (peraltro in linea con la questione del consumo del suolo di cui anche alla recente Legge Regionale n. 14/2019) quale risulta essere quello sulle altezze.
In queste pagine avevamo già commentato l’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato, Sez. VI, domandandoci se era corretto che il parametro delle distanze soggiacesse ai criteri (e alla giurisprudenza formatasi in merito) riguardanti le distanze ed in particolare il D.M. 1444/1968.
La questione affrontata trascendeva il caso specifico del Comune di Castelfranco Veneto tanto da indurre sia l’ANCE Veneto che l’ANCI Veneto ad un intervento in causa (peraltro dichiarato inammissibile).
Se il bonus del 40%, previsto dal piano casa regionale, è stato fatto salvo, non si può dire che la pronuncia abbia fatto chiarezza sul modo di calcolarlo.
Dalla lettura della sentenza n. 944/2017 del TAR Veneto (da cui la vicenda prendeva le mosse) si comprendeva solo che gli interventi di ampliamento in base al Piano Casa, con modificazione delle altezze, sono ammissibili “fino al 40% dell’edificio esistente”. Come accennato nulla veniva spiegato sul modo di calcolo di questa percentuale che l’Amministrazione Comunale, previo parere della Regione Veneto, aveva inteso facente riferimento all’edificio dell’immobile più alto della zona (nella fattispecie, era quello dell’originario ricorrente al TAR contro la DIA presentata dall’impresa committente).
Ebbene, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni dell’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8bis della Legge della Regione Veneto 8 luglio 2009, n. 14, sollevate, in riferimento, all’art. 117, II comma, lettera L), e III comma della Costituzione, sollevate dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con l’ordinanza 1 marzo 2019, iscritta n. 94 del Registro Ordinanze 2019.
Si è trattato di un modo per non affrontare nel merito i numerosi temi proposti sicché, ancora oggi, non vi è alcun pronunciamento della Corte Costituzionale in materia di altezze e, conseguentemente, non è dato sapere se il D.M. 1444 del 2 aprile 1968 costituisca, anche su questo tema, normativa inderogabile e prevalente come, invece, già espressamente (e in più occasioni) dichiarato dalla stessa Corte Costituzionale in materia di distanze.
Dopo un’ampia discussione riportata nel corpo della sentenza, il Giudice delle leggi ha accolto un’eccezione sollevata sostanzialmente da tutte le parti e, in particolare, dalla società ricorrente che aveva stigmatizzato l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza ai fini del thema decidendum.
Quindi, sintetizzando, la Corte ha considerato che il contenimento dell’intervento edilizio nei limiti di altezza di cui all’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968 non aveva costituito oggetto del giudizio di primo grado, né era stato devoluto, con i motivi di appello, alla cognizione del Consiglio di Stato.
L’eccezione così mossa è stata ritenuta fondata e la Corte, in modo piuttosto succinto, ha definito i motivi per i quali l’eccezione è stata accolta.
“Invero, nell’ordinanza di rimessione il Consiglio di Stato rileva che il giudizio ha ad oggetto la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con la quale sono stati annullati gli atti inerenti all’iniziativa edificatoria della società Antares «limitatamente alla parte in cui il Comune di Castelfranco si è determinato erroneamente riguardo la verifica dell’altezza del costruendo edificio […] con riferimento alla corretta applicazione del comma 8-bis dell’art. 9 della legge regionale n. 14 del 2009».
Il rimettente, in particolare, evidenzia che, secondo la sentenza davanti ad esso impugnata, in base alla norma regionale la percentuale di aumento dell’altezza doveva calcolarsi sullo stesso edificio oggetto di ampliamento, e non sull’edificio circostante più alto, come invece ritenuto dal Comune che aveva autorizzato l’intervento.
Nel giudizio di primo grado si è dunque fatta questione della norma censurata limitatamente alla parte in cui la stessa consente «gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C […] sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente»; proprio tale ultima locuzione – ovvero cosa debba intendersi per “edificio esistente” – ha costituito l’oggetto delle contrapposte posizioni espresse in giudizio, ed ha trovato una soluzione nella decisione poi oggetto di appello innanzi al Consiglio di Stato.
Le censure del rimettente non hanno ad oggetto il tema dell’individuazione dell’edificio esistente sul quale calcolare l’aumento in altezza, ma il fatto che tale aumento sia consentito «anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni».
E tuttavia, dalla lettura dell’ordinanza di rimessione non è dato inferire che fra gli aspetti controversi dell’intervento edilizio vi fosse anche il fatto che esso era stato autorizzato in deroga a tali limiti di altezza.
Il giudice a quo, infatti, non fornisce al riguardo alcuna specifica indicazione, limitandosi ad affermare che il giudizio ha ad oggetto il «rispetto delle altezze, nei termini derivanti dalla norma regionale in questione», e che i motivi di gravame «si basano sulla contestata applicazione della norma regionale»; ma, come si è osservato, i termini di tale contestata applicazione attengono ad un profilo della norma estraneo al perimetro delle censure.
Le questioni vanno dunque dichiarate inammissibili per carenza di motivazione in ordine alla rilevanza”.
Nel merito, la questione dovrà essere ripresa innanzi al Consiglio di Stato, anche alla luce della pronuncia in commento.
In punto di diritto, invece, l’operatore – con riferimento al tema dell’altezza – non è ancora in grado di ponderare il valore del D.M. 1444/1968 e ciò in relazione non solo alla normativa regionale del Piano Casa (in materia di altezze non c’è ancora un modus operandi chiaro) ma nemmeno in relazione ad eventuali interventi legislativi che dovessero esplicarsi su questo parametro edilizio che, come detto, risulta fondamentale (specie ora che si parla di consumo del suolo) e, ad avviso di chi scrive, sganciato dalla normativa sulle distanze (a tal proposito basterà ricordare che nella sezione V e VI, titolo II, del libro terzo – della proprietà – non vi è alcuna disposizione specifica in materia di altezze).
Estendere, come vorrebbe il Consiglio di Stato, l’interpretazione data in materia di distanze dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale alle altezze, è riduttivo e semplificatorio ma, soprattutto, non trova riscontro né nel dato letterale della norma né in quello sistematico del nostro Ordinamento.
La Corte avrebbe potuto accendere una luce sull’argomento ma – evidentemente – ha preferito non sbilanciarsi.
La circostanza ingenera incertezza e, sicuramente, condizionerà, nel futuro prossimo, tutti quegli interventi normativi (e interpretativi) che avranno ad oggetto il parametro dell’altezza, essenziale per determinare la riduzione del consumo del suolo.
Sentenza Corte Costituzionale n. 30/2020
Sara Salvalaggio